24 gennaio 2025

Here

Andiamo al Cinema

Una casa e tutte le famiglie che ci hanno abitato.
Uno spazio e tutto quello che ha contenuto, non solo mobili, divani, invenzioni, ma anche amori, matrimoni, litigi, nascite e morti.
La macchina da presa posizionata lì, fissa, a fissare quello che succede, i personaggi che si alternano, le loro gioie e i loro dolori.
Fin dall'antichità, che corrisponde all'epoca precolombiana, passando per guerre civili e infine, l'oggi.
Con tutto il vuoto che rappresenta.
Un progetto così, facile pensarlo come una graphic novel, con la vignetta uguale a ripetersi e a riempirsi, le parentesi ad aprirsi, i cambiamenti da inserire.
Più difficile pensarlo come un film, pur sentendo la sfida che la camera fissa, lo stesso ambiente da modificare e alterare, può portare.
Una sfida che inizialmente non molti studios hanno accettato, con Robert Zemeckis a non darsi per vinto e forte del lavoro su carta di Richard McGuire, lo ha adattato a sceneggiatura con Eric Roth e ha richiamato a sé una squadra vincente: quella di Forrest Gump.


Non solo Tom Hanks e Robin Wright, ma anche il fotografo Don Burgess e il compositore Alan Silvestri, insieme, di nuovo, dopo 30 anni.
E sembra l'inizio di un racconto felice, di un film che nonostante le difficoltà iniziali ce la fa, riesce, stupisce nel suo parlare di famiglia, allargata e varia, lungo il corso di decenni.
Invece, molto scricchiola.
La scelta artistica della camera fissa vuole essere resa più interattiva con rettangoli e quadrati che via via aiuteranno a cambiare epoca e personaggi, in una continua richiesta di passare ad altro che pur essendo oggi in un momento in cui la soglia di attenzione è ai minimi storici e le parentesi fanno quasi pensare a schermi in cui dare una rapida occhiata, non solo disorienta ma stanca ben presto.
Si vorrebbe far entrare la Storia, tra TV e arruolamenti, invenzioni e prodigi passati, ma questa continua a restare sullo sfondo o poco più.
Un ingombro.


I dinosauri sembrano quasi un richiamo a una sceneggiatura impossibile da adattare come lo fu per Charlie Kaufman che sceglieva di correre così indietro nel tempo per riuscirci, ma qui si passa e si resta su quei nativi d'America e il loro amore da cartolina, una tenuta coloniale storica e la storica casa che gli viene costruita davanti, per arrivare al vero nucleo del racconto.
Che sta tutto in due giovani dai grandi sogni che si scontrano con la realtà, fatta di una gravidanza imprevista, di un tetto da condividere con genitori non certo facili, facili all'alcool e al giudizio come sono, e i lunghi anni in cui quella casa viene riempita tra cene e pranzi, decisioni importanti e litigi sottovoce, una figlia cresciuta in fretta che se ne va, gli anni che chiedono il loro conto e una pace a due finalmente arrivata a mostrare invece quelle crepe che il caos e la routine sapevano nascondere.
Banale?
Sì, ma non per questo non toccante, se raccontato bene.
Purtroppo, non è il caso di Here.
Tra parentesi e digressioni, nuovi e vecchi inquilini che non lasciano il segno ma allungano il brodo, la presa di coscienza di una moglie infelice si perde e splende solo alla luce delle candeline di un traguardo importante grazie alla bravura di Robin Wright.


Non si può non parlare di attori senza parlare dell'uso del ringiovanimento tramite intelligenza artificiale, uso che fa molta più paura dello sparuto uso fatto da The Brutalist che tanto sta facendo parlare in America e che qui ringiovanisce Tom Hanks e Wright, ce li riporta imberbi come li ricordiamo, pur avendo le voci, le movenze, di chi così giovane non è più.
Un esperimento, l'ennesimo per Zemeckis dentro questo film, che mi fa storcere il naso e non mi fa tifare per una tecnologia simile, con tutti gli attori e truccatori capaci in circolazione.
E se devo dirla tutta, meglio il ringiovanimento degli effetti speciali posticci di un colibrì o di dinosauri in fuga…
Gli aspetti positivi ci sono comunque e stanno in una colonna sonora emozionante e in quei minuti finali che cercano di cambiare tutto.
Bastano le parole di Robin, lo sguardo di Tom, la macchina che finalmente si muove, li abbraccia, cambia il punto di vista e li saluta.
Aprendo al mondo.
Basta?
In modo molto ruffiano, con le lacrime a scorrere, dico di sì.


Il problema è il resto di Here.
Lì dove ci si sta per emozionare, si aprono parentesi.
Lì dove c'è la storia, la si mette in pausa per mostrare altro, dal COVID a una sedia ribaltabile, che sono tutte parti della storia, tutte parentesi che vogliono sottolineare e mostrare altro, ma che distraggono per come entrano in scena, la rubano, in un esercizio di stile più stancante e a tratti pure un filo troppo buonista e didascalico per definirsi riuscito.
Più dell'emozione, alla fine si sente la fatica.


Voto: ☕☕½/5

5 commenti:

  1. La fatica. Fai bene ad evidenziarla, ma ne esalto il ruolo positivo, fatica cui ci costringe Zemeckis dopo averci inchiodato alla poltrona, per svellerci magicamente solo alla fine, e più fatica avremo fatto, più occhio avremo dedicato, più ci sentiremo sradicati e volanti in quegli attimi di finale pazzesco.

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  2. Ad un certo punto sono entrato in "Modalità Malick" (sarà stato per via dei dinosauri?) e me lo sono goduto, è molto tecnico, difficile portarlo agli spettatori, ma le musiche di Alan Silvestri ci riescono alla grande, che colonna sonora ha firmato. Cheers!

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    1. Sai che al controcampo nella specchiera ci hanno fatto caso in pochi? Forse dormivano.. ;)

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  3. E infatti è tratto da un fumetto con lo stesso titolo, non lo hanno scritto nei credit?

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  4. Soffre momenti di stanca, e un paio di storie non ingranano, ma ti entra dentro e ti costringe a pensare alla vita e alla morte. Quindi, per me è sì, con lacrime annesse.

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