8 settembre 2020

Venezia 77 - Khorshid | Laila in Haifa | La Troisième Guerre

Khorshid

La dedica è a tutti quei bambini nel mondo costretti a lavorare, e a chi si impegna a toglierli dallo sfruttamento.
Siamo in Iran, siamo in quella terra dove i bambini sono da subito adulti, impiegati in piccoli e grandi lavoro, illegali o semi-legali che sia.
Ali è il leader del suo gruppo, quello che sa come scappare dalla polizia, sa come rubare cerchioni.
Sveglio e intelligente si iscrive insieme al suo gruppo a scuola.
Non per studiare, non per riscattarsi, ma perché assoldato per trovare un tesoro.



L'obiettivo è scavare un tunnel che dalla cantina della scuola arrivi alle fogne e poi al cimitero, lì troveranno antiche monete, gioielli e chissà cos'altro.
Riuscire a scavare non è facile, ci vuole forza e impegno, ci vuole furbizia nel farlo durante la ricreazione, a turno, appena si può.
Ma passano i giorni e la scuola offre agli amici di Ali nuove opportunità, passano i giorni e la comunità afgana è intenzionata ad andarsene, a tornare a casa. Passano i giorni e nonostante l'appoggio di un maestro e l'impegno di un preside, la scuola rischia di chiudere.
Deve sbrigarsi,Ali che è rimasto l'unico a credere a quel tesoro, deve arrivarci.
Il finale amaro ma anche sospeso, arriva in fretta a troncare un racconto di quelli duri, di quelli intensi, non propriamente facili o per tutti.
Vero cinema da festival, Khorshid apre ancora una volta gli occhi su realtà così fuori dai nostri radar.

Laila in Haifa

Siamo in un bar ad Haifa e le vite di avventori, baristi, galleriste e fotografi si scontrano.
Il cuore pulsante della città ha ora un nuovo spazio d'arte inaugurato da una mostra fotografica con connotazioni politiche.
È il sogno di Laila per sfondare e rivalersi agli occhi del ricco e anziano marito, è l'opportunità per un fotografo di imporsi, è la possibilità per un'investitrice di sbarcare in America.
Ma in quel bar ci sono coppie che nascono e si rompono, appuntamenti al buio, crisi esistenziali, discorsi politici e sui massimi sistemi, che iniziano e finiscono, che sembrano aspettare l'arrivo della macchina da presa per iniziare.


Sviluppato tutto dentro quest'unico ambiente, concedendosi poche uscite all'aria aperta e numerosi piani sequenza, Amos Gitai sembra più interessato alla tecnica che non a far procedere il film in modo fluido.
La teatralità eccessiva, l'inverosimile di certi discorsi, di frasi che sono stereotipi e di discussioni tutt'altro che naturali ne fanno un film freddo e tecnico, dove in realtà anche la tecnica quando indugia sui corpi che si concedono senza remore ai piani di sopra o in auto parcheggiate in entrata, aumentano il senso di incredulità, togliendo peso alle parole.

La Troisième Guerre

In mesi in cui le forze militari non hanno certo la simpatia del mondo, l'occhio di Giovanni Aloi decide invece di raccontarcele da dentro. Si concentra in particolare su un soldato giovane e semplice che trova nell'esercito una via di fuga da una famiglia indifferente e un paese allo sbando. Ma l'inattività e i consigli dei soliti bulli aumentano il suo senso di disagio e la voglia di emergere, andando a vedere e cercare il pericolo in ogni passante e una minaccia ad ogni azione. La vita di caserma fatta di maschilismo, machismo e nonnismo aumenta il suo disagio.
Che qualcosa possa andare storto, è inevitabile.


Aloi è documentaristico nel rendere l'esperienza di Leo, di rendercelo più umano dietro la sua uniforme, dietro quell'aspetto da bambino.
Riesce nel suo intento, ma in verità non coinvolgendo appieno, schierandosi dalla parte sbagliata di una barricata dove certe teste calde per quanto con un loro passato e un loro presente difficili, lì non dovrebbero stare.

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