A 16 anni pensi di conquistare il mondo.
Te lo fanno credere tutti, del tuo talento, della tua bravura, di quanto sono belle le tue canzoni, di quanto la famiglia conti su di te, per sfondare, per avere successo.
Succede che un album lo riesci a fare, ma niente.
Niente di niente.
Il sogno si infrange, la vita ti rema contro, e anche dopo anni quella scottatura, quei debiti, pesano.
Passano 30 anni, però, e il mondo ti dà ragione.
Scopre quella musica, la ama, la loda.
Finisci sui giornali e in classifica, puoi pure fare una tournée con quelle canzoni scritte da un sedicenne innamorato e con il cuore spezzato, troppo grande, diverso, da quelli della sua età.
Come prenderla?
Come crederci e come lasciarsi andare, con la paura di essere scottato?
Una storia così, era materiale perfetto per un film.
Prima ancora, per l'articolo di un giornale, che il successo così in ritardo di Donnie Emerson e del fratello Joe, lo ha voluto raccontare.
Lo rende un film Bill Pohland, che già aveva raccontato i tormenti di Brian Wilson, in un film che però è più classico che mai, che punta sui drammi interiori di Donnie e sugli scontri con una famiglia troppo ottimista, senza rendersi conto di quanta poca sostanza questi demoni hanno, soprattutto se si calca su un mistero che non c'è.
Un peccato, perché la storia c'è, i protagonisti ci credono, con Casey Affleck a confermare di essere quello bello, quello bravo, della famiglia oltre ad avere una gran bella voce.
Solo per lui la finzione regge, la musica conquista.
Più di un documentario, la scelta più logica e forse anche la più adatta a una storia così particolare.
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