Vedi il titolo, vedi la scrittrice, pensi al suo premio Nobel, al tuo essere un'inguaribile gattara, e lo leggi come un libro di conforto, con un modo leggero per riconciliarti alla lettura leggera.
Che delusione, invece, quando inizi e scopri che si parla di stragi di gatti, di gatti uccisi a fucilate, di gatti rapiti da uccelli rapaci, di gatti malconci, stanati e fatti fuori per sopravvivenza casalinga.
Nei suoi anni africani, nella sua infanzia nel mezzo del nulla dello Zimbabwe con servi e la natura come balia, Doris Lessing la natura ha imparato a rispettarla. Ma anche a doverla soggiogare.
Troppi i gatti che accoppiandosi liberamente nascevano, troppi i gatti selvatici che rubavano e uccidevano le galline, troppi i gatti che nati fra consanguinei erano troppo deboli per rimanere in vita.
Era la madre, inizialmente, ad occuparsi di tenere a bada la natura.
Un controllo demografico perfido e difficile da digerire, finché pure lei ha detto basta e l'ingrato compito è passato a Doris e al padre, in un weekend di fuoco che Doris si porta ancora addosso quando dall'Africa se ne va, inizia a vivere sola a Londra e nei suoi sobborghi e finalmente cede: ha un gatto, uno solo, il suo.
Una gatta per l'esattezza, e i toni un po' cambiano ora che è in città e ha un gatto di città, anche se la gatta resta senza nome.
Una gatta grigia, bellissima e consapevole di esserlo, vanitosa ed esibizionista che vede il diventare madre un compito non per lei, lei che perde attenzioni, perde tempo.
Poi arriva una gatta nera, a rovinare il suo Regno solitario, e sarà una gara continua alla ricerca di attenzioni e di imposizioni, anche nei viaggi in campagna, dove la campagna si fa così diversa dalla città per delle gatte cittadine.
Osserva e registra, Doris, lei che persiste nel controllare la natura a suo modo, ad evitare il più possibile la sterilizzazione a favore di metodi molto più drastici.
Un libro, insomma, non per animalisti.
Non per me, in molti punti in cui la rabbia per quanto raccontato e per come mi veniva raccontato mi ha fatto fremere le mani.
Per fortuna, certe riflessioni non banali, sentite, certi studi di carattere e certe osservazioni, hanno stemperato la lettura.
E per fortuna, proprio sul finale, è arrivato Rufus.
L'unico gatto ad avere un nome, un gatto malandato, da curare e da strappare alla morte a furia di coccole e intrugli, un gatto che si insinua in casa, chiede permesso, lui che una casa chiaramente l'aveva e l'ha persa.
Rufus che mi ha ricordato Baghera e il suo scegliermi, le sue fusa di ringraziamento per non averlo abbandonato di nuovo, il suo ultimo anno così felice, di certo diverso, da quelli passati in strada.
I gatti speciali li riconosci subito.
Sono malandati e anche per questo sembrano ringraziarti di più, cercarti di più, tra miagolii e fusa, in segno di ringraziamento.
Il mio gatto speciale, oggi, si chiama Peter.
Lo sfortunato dei tre fratellini che dalla strada hanno scelto prima mia zia, poi me.
Peter è quello che ha perso la coda, e anche il controllo della vescica, sotto una macchina.
La casa, ora che perde in continuazione, è off-limits per lui, e io che in un anno ho imparato come si spreme una vescica per evitare infezioni, quali alimenti dargli, quanto pulire, e sono diventata un'habitué dal veterinario, vengo ringraziata quotidianamente tra miagolii più forti, più belli, più pieni. È passato un anno, e Peter lo scodato è tornato in forma (come si vede), e ancora cerca di entrare in casa. Lui che sgocciola e perde, lui che resta il micio speciale, speciale davvero, anche nel giardino di cui è diventato l'inquilino perfetto.
Alla faccia delle selezioni innaturali di Doris, la sua lettura poco confortevole mi ha ricordato come ci sanno salvare, e come si salvano, i gatti.
Nessun commento:
Posta un commento