Andiamo al Cinema
C'è sempre una certa ansia da prestazione quando si parla di Christopher Nolan.
I suoi fan hardcore sono sul piede di guerra a gridare al capolavoro per ogni suo film, i suoi odiatori di professione pronti a cestinarlo appena qualche indiscrezione esce.
Poi c'è chi, come me, sta nel mezzo.
Aspetta il film evitando anticipazioni anche quando è difficile resistere alle poche interviste concesse dal cast prima dello sciopero degli attori.
Ci sono io, dicevo, che lo apprezzo come regista, per il suo occhio, le sue attenzioni, la sua artigianalità in un mestiere che intende proprio come tale, studiando, progettando, inventando mezzi per girare, ma che lo capisco meno come scrittore di sceneggiature a ingranaggio, complesse solo all'apparenza, con storie da cui uscire sbalorditi a livello visivo, intoccati a livello personale.
Un cinema freddo, il suo, anche quando cerca di rendere la fantascienza più umana, o almeno provandoci.
Insomma, è impossibile parlare di un film di Nolan senza mettere se stessi al centro, la propria idea di cinema, il proprio sentire.
Ma cerchiamo di essere razionali.
Che se sono finita in un cinema di Copenaghen in piena vacanza, chiudendomi per 3 ore in sala per godere così dell'IMAX (anche se non in 70mm), non è solo per la cotta decennale per Cillian Murphy.
C'è proprio quell'artigianalità che fa la differenza, quel voler vedere il film il più possibile vicino a come è stato girato.
L'esperienza con uno schermo gigante, un sonoro che fa tremare le poltrone, affiancata perlopiù da vecchietti in pensione e con le stampelle, ha reso unica la visione di un film in inglese, con sottotitoli danesi, che mi ha visto faticare solo in alcuni punti.
In un film in cui i dialoghi sono fitti, in cui la scienza, la fisica, la costruzione di una bomba vengono spiegati senza lasciare indietro, sono però le immagini a contare di più.
Sono i primi piani, stretti stretti sul volto scavato di Oppenheimer, che è sempre lì.
Sempre al centro.
È il suo punto di vista che si abbraccia, il suo sguardo, i suoi colori.
I suoi ricordi, che durante un interrogatorio che non è una testimonianza, ricostruisce la sua storia, i suoi studi, i suoi amori e le sue collaborazioni.
La prima parte del film diventa così un film biografico in cui Cillian riesce a passare tranquillamente per studente universitario, non troppo capace in laboratorio, chiuso nella sua mente e in teorie che lo ossessionano per cui trova rifugio in università lontane e diverse, sotto l'ala di professori d'alto rango.
Poi si cambia, perché una cattedra la prende pure lui, perché la Guerra incombe e con quella il bisogno di armi sempre più forti, per battere il nemico sul suo stesso campo. Parte così il Progetto Manhattan, nel mezzo del deserto di Los Alamos, in cui le menti più brillanti dell'epoca si riuniscono per capire come stabilizzare un nucleo, come creare una bomba capace di annientare intere città e portare alla pace.
E qui, le cose cambiano, si fanno più interessanti, più complicate, con problemi morali e politici a scavare ancor di più il volto di Oppie, con la macchina da presa a cogliere nei suoi occhi le paure, i dubbi, le convinzioni che oscillano.
Anche quando quella bomba esplode, e come sa farla esplodere Nolan!
Facendo tremare lo schermo, le poltrone, i cuori.
Missione compiuta, ma non è finita.
E nel terzo atto mi incaglio, in una vicenda giudiziaria senza giudice e senza tribunale di cui nulla sapevo, in cui le credenziali di sicurezza di Oppenheimer vengono messe in discussione e le sue simpatie per i comunisti messe sotto esame.
Si riprende così da quell'interrogatorio/testimonianza, ritrovando chi con lui c'era a Los Alamos, dando luce a una moglie più combattiva di lui, che riesce pure a rubare la scena. Non ci si distrae, anche se la questione è più pesante di calcoli e teorie fisiche, pure questi scambi diventano appassionanti lì dove il colore viene meno, il punto di vista in bianco e nero di Lewis Strauss prende il sopravvento.
E si finisce con una carica emotiva che lascia sopraffatti, con poche parole pronunciate a bordo lago che hanno cambiato la storia davvero.
È un film fatto di dettagli.
Quelli che lo sguardo di Oppenheimer nota, studia, archivia.
Quelli che ricostruisce e immagina, fatti anche di corpi. Tanto si è parlato del nudo di Florence Pugh, quanto poco si è detto di una figura tragica come Jean Tatlock che pur restando in un angolo e pesando poco sul minutaggio del film, resta chiaramente sempre in un angolo della mente di Oppie, pesa sulla sua intera vita.
Si esce sopraffatti dalla sala, quella sala che ha vibrato al suon di una colonna sonora maestosa composta da Ludwig Göransson, che ha riempito lo sguardo di occhi così chiari da far male, di immagini di fuoco, vortici, e combustioni uscite direttamente da una mente che vede oltre.
Sopraffatti da un uomo che, con i suoi colleghi il mondo l'ha cambiato per sempre.
Da una storia così grande che in tre ore non smette di appassionare.
Da un Cillian Murphy che pur distraendo spesso e volentieri per la sua bellezza, dà anima e corpo a un personaggio così sfaccettato.
Da un cast in parte, serio e ligio, che concede qualche strappo ironico ogni tanto, ma da Matt Damon a Josh Hartnett, da Emily Blunt a Florence Pugh, passando ovviamente per un Robert Downey Jr. più difficile da seguire in lingua originale ma decisamente intenso, il clamore per un cast simile che comprende in piccoli ruoli chiave anche Rami Malek, Gary Oldman, Dane DeHaan, Casey Affleck, Bennie Safdie, Jason Clark, Alden Ehrenreich funziona. In pochi minuti, a volte secondi, fanno la differenza
E capisco il peso, la segretezza, il duro lavoro dietro un film complesso e complicato, dietro ricostruzioni e atteggiamenti.
Ora, sopraffatta e ancora colpita, non lo so se l'ho amato Oppenheimer, però.
La freddezza di Nolan c'è, e anche il suo voler rendere involontariamente complicata la prima parte biografica che salta di anno in anno e di università in università. Scampoli di una vita ricordata. Ma in quel deserto, in quel villaggio costruito appositamente, qualcosa si è scaldato, non si è rimasti indifferenti.
Applaudo e mi congratulo, quindi, e non ho smesso di parlarne per ore uscita dalla sala, al cimitero di Copenaghen, unico luogo adatto a riprendersi dopo la visione, pieno com'era di morte e di bellezza.
Anche senza colpire al cuore, Oppenheimer sa come restare bene in testa.
Voto: ☕☕☕☕/5
Anch'io sono nel mezzo, amo incondizionatamente alcune sue opere, Memento, The Prestige e Interstellar su tutti, e riconosco la sua passione per il dettaglio. Tenet mi ha deluso molto invece, spero di riprendermi con questa sua ultima opera..
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