26 settembre 2025

Alpha

Andiamo al Cinema

Una ragazzina di 13 anni torna a casa con una A tatuata sul braccio.
Sembra una condanna.
Non è una lettera scarlatta che la accusa di Adulterio, non è un monito in quanto diversa, ma una preoccupazione costante per come quel tatuaggio è stato fatto e per le conseguenze che può avere.
Siamo in una Francia degli anni '80 diversa dagli anni '80 che abbiamo vissuto ma con le stesse paure.
I giovani si divertono annebbiandosi nell'alcool e nelle droghe, gli adulti fanno i conti con le loro dipendenze, e un virus misterioso, incurabile, miete una dopo l'altra le sue vittime.
Non è l'AIDS quello che Julia Ducournau mostra, ma la metafora è evidente.
È un virus che spaventa i medici e le infermiere per primi, i pazienti subito dopo, che si ritrovano a tramutarsi lentamente in statue di marmo, a espirare polvere, e spegnersi lentamente mentre sono tenuti a distanza, osservati, giudicati, dagli altri.


E Alpha, si è ammalata pure lei?
Lei che da 13enne non pensa alle conseguenze, non pensa che per sé, mentre la madre un dramma simile l'ha già dovuto affrontare e si trova a doverlo gestire nuovamente ora che il fratello tossicodipendente bussa alla sua porta e occupa la stanza di Alpha. Che lo teme, che lo giudica, che lo imita inconsapevolmente.
Ci aveva abituato a film forti, a film ritmati e dinamici, a film capaci di shockare e spingere l'asticella del body horror un po' più in là.
Dal cannibalismo di Raw all'attrazione meccanica di Titane, Julia Ducournau sembrava lanciata in una carriera capace di stupire ancora e ancora.
Con Alpha fa invece un passo falso.


Non tanto per una tematica che mette ancora al centro della scena un corpo, quello marchiato, quello temuto, quello sospettato e che in quanto (forse) infetto diventa difficile da gestire e esibire, con i compagni di scuola di Alpha a respingerla e vessarla e rendere drammatica e spaventosa ogni situazione, dal bagno in piscina al semplice bacio.
Ma per come una tematica che è una metafora evidente e ancora attuale, viene raccontata, con un ritmo lento fino ad essere soporifero, con nessun guizzo e con una narrazione che mostra passaggi di un passato a rendere inutilmente ingarbugliato il racconto, appesantendolo senza aggiungere alcunché.
Se Mélissa Borros non sembra avere le spalle larghe abbastanza per reggere un personaggio non troppo simpatico e non troppo profondo come quello di Alpha, ci pensano Golshifteh Farahani e Tahar Rahim a portare avanti il dramma, forse più interessante essendo lei un'infermiera in prima linea e lui un fratello minore riluttante, figli di una madre che crede a cure laterali.


Ducournau sembra spesso perdersi dietro scene oniriche e suggestive invece di portare avanti la storia, e basterebbe la mezzora iniziale di questi 128 minuti a dimostrarlo visto com'è composto di almeno quattro inizi che ancora non presentano a dovere i personaggi.
Prende tempo e tempo ne perde, scarica di intesse una malattia esteticamente forte e una protagonista senza veri alibi o moventi.
Il mondo che Alpha costruisce è un modo di polvere e di sangue, che si fossilizza come il marmo, che si disperde come la sabbia, rossa.
Si arriva a fatica a un finale che non soddisfa, e se qualcosa resta (una una malattia originale, o un confronto con il professore e il suo compagno), è per resistenza alla sonnolenza.

Voto: ☕☕/5

Nessun commento:

Posta un commento