The Wizard of the Kremlin
Con Oliver Assayas ho un rapporto altalenante.
Quando si fa più radicale in racconti che sfiorano l'onirico, sto dalla sua parte, quando si fa più didascalico e intellettuale, mi perde.
Va da sé che quella che è una lunga lezione di storia sulla Russia dopo la caduta del comunismo e sull'ascesa al potere di Putin appartiene alla seconda categoria. E mi perde.
Non tanto per una lezione storica complessa che cerca di mostrare le contraddizioni di chi si è liberato del potere e si ritrova a stare sotto una classe di corrotti, quanto, ovviamente, per come ce lo racconta.
In inglese, prima di tutto, con attori inglesi o americani e famosi facendo perdere anche ogni senso di autenticità alla sua ricostruzione. Con un protagonista fittizio per quanto aderente alla vera figura di chi ha consigliato per anni chi era al potere e di cui, francamente, poco ci importa, colpa anche di un Paul Dano appesantito e monoespressivo. Un inizio nella Mosca piena di vita e di voglia di ricominciare tra sperimentazioni musicali e teatrali per poi arrivare al consumismo più bieco degli oligarchi a cui basta una mossa sbagliata per perdere tutto.
Un equilibrio precario, per un adattamento non certo accattivante che prova ad accattivarsi il pubblico buttandoci di mezzo l'amore e una splendida Alicia Vikander, ma la noia in 156 lunghissimi minuti regna sovrana e quello che poteva essere il primo film ad attaccare un dittatore in modo diretto, finisce per essere una parodia di un film politico, così come Jude Law fa la parodia di Putin, per quanto a sorpresa somigliante.
Assayas, sarà per la prossima volta.
L'étranger
Partiamo dalle lacune: non ho letto il romanzo di Albert Camus, non ho visto l'adattamento di Luchino Visconti.
Ma non credo di dire un'eresia dicendo che Benjamin Voisin non fa rimpiangere Marcello Mastroianni. Parte del fascino del nuovo film dell'instancabile François Ozon sta infatti nel protagonista: un uomo bellissimo ma indolente, annoiato, rotto, in una calda Algeri dove la madre muore e lui si ritrova a dover passare il tempo.
L'altra parte del fascino è data da un bianco e nero di abbagliante bellezza, che inquadra corpi e prigioni, mare e stanze, rendendoli fotografie indimenticabili.
Il film è indolente, come il suo protagonista, che tutto osserva e che non sa mentire, nemmeno a quella che potrebbe diventare la sua sposa, ma che non ama. Un uomo così che fuma e che passa il tempo di lutto al mare, finisce per uccidere un arabo e non sa nemmeno lui perché.
Sotto processo più per la sua persona che per il suo gesto che non sembra troppo grave in una Francia coloniale e razzista, inizia lentamente a far intravedere qualche crepa, un briciolo di sentimento, in quell'indifferenza che chissà se si può chiamare depressione.
I film francesi e giudiziari sono diventati un genere a sé che sempre funziona, ma in questo caso il processo occupa solo l'ultima parte di un film che diventa un processo interiore e un'osservazione minuziosa di un uomo, di un corpo, cercando di capirlo e analizzarlo. Voisin oltre a essere una cotta veneziana ormai datata, è perfetto per il ruolo, fascinoso e seducente, annoiato e infine arrendevole.
Con un ritmo sonnolento, seduce e avvolge con la sua pagina estetica d'altri tempi.
Silent Friend
Si è rivelata la vera sorpresa del concorso.
Un film intimo, pieno di calore e umanità pur parlando di piante
Di tre botanici, in realtà, di tre epoche diverse e dei loro studi da principianti nel settore.
Seguiamo la prima donna che nel 1908 entra all'Università di Marburg, seguiamo le influenze dell'amore su un giovane di campagna che di piante non vorrebbe più sentir parlare ma resta affascinato dalla sua vicina e dai suoi test su suo geranio e infine seguiamo un neuroscienziato, che nel pieno del lockdown del COVID si ritrova a spostare i suoi esperimenti sulle piante, convinto di poterne analizzare le emozioni, i cambiamenti.
Ad osservarli, con la sua maestosità, un Ginko Biloba piantato nel 1830, che regna solitario nel giardino botanico, che accetta gli esperimenti, come il fumo delle droghe, come il vomito dopo una bevuta, come le danze di questi personaggi. E dei loro amori.
Verso la fotografia e un assistente, verso una vicina che potrebbe essere scoraggiata dalla timidezza, verso un guardiano sospettoso. L'amore finisce per trovarlo anche quel Ginko, in una storia che sembra ripetersi e sembra richiedere pazienza.
Ildikó Enyedi avvolge nel suo ritmo lento e tranquillo, regalando risate e batticuori, regalando stupore per scoperte scientifiche da vedere alle prime armi.
Ogni epoca è girata con un supporto diverso in modo da rendere più speciale e più vera la ricostruzione storica, e più unico un film che non fa pesare mai i suoi pur lunghi 145 minuti da cui ci si ritrova a chiedere ancora. Ancora, di queste storie che restano volutamente sospese, di queste amicizie che nascono, di queste passioni che prendono.
Ancora, in una sala partecipe e gremita, che applaude e ride e applaude ancora.
Una vera sorpresa, che riconcilia con il mondo là fuori.
Chien 51
Film di chiusura di questa edizione, un film francese ambientato in un futuro distopico non troppo lontano dall'oggi.
La società parigina è regolata da un'intelligenza artificiale che aiuta la polizia a risolvere i crimini. Nel farlo, la città è divisa in tre settori gerarchici in base alla ricchezza.
Quando però lo sviluppatore di Alma viene ucciso, le indagini si concentrano sul leader di un gruppo di anarchici ma porta i due poliziotti interpretato da Adele Exarchopoulos e Gilles Lelouche a cercare una verità più scomoda e pericolosa.
Un film d'azione come in Francia li sanno fare, tra inseguimenti e sparatorie, ma anche un film Netflix che ci piazza dentro una storia d'amore di cui non si sentiva la necessità e parentesi musicali di una banalità e di un'utilità innegabili.
Nonostante tutto, scorre, con un cast che comprende anche Romain Duris, Valeria Bruni Tedeschi e Louis Garrel, ma puntando il dito contro l'IA si ferma a essere film d'azione più che film di denuncia.
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