Il Maestro
Se il tennis spopola in Italia, facciamoci anche un film.
Occasione ghiotta e presa di petto dalla coppia Di Stefano-Favino che rispetto alla loro prima collaborazione, il thriller poliziesco L'ultima notte di Amore, cambiano registro.
Siamo dalle parti della solita commedia italiana dolceamara, quella di un maestro e di un discepolo, di un rapporto che parte scontroso per poi solidificarsi.
Non è facile per Felice fidarsi di Raul Gatti, ex stella del tennis italiano, finito in disgrazia ma playboy impenitente che deve dare una regolata alla sua vita e racimolare soldi, quelli che servivano alla famiglia di Felice per andare in vacanza e che invece un padre ossessionato decide di dedicare tutti a lui, ai suoi tornei in giro per l'Italia per renderlo il campione che che spera.
Libertino uno e ligio al dovere l'altro, faticano a capirsi e soprattutto a vincere. Basterebbe questo per farne un film tutto sommato riuscito, con gli angoli che si smussano, con il passato di Gatti che torna a chiedere conto. Invece si decide di andare avanti, di fare di questo passato il vero focus del film, fuori dal campo di terra rossa, cercando vecchi amori, vecchie ferite.
Favino è sempre Favino, anche se cambia accento e cambia corpo, e sostiene da sé un film classico, senza nessuna zampata, purtroppo.
La Gioia
Dopo La Grazia, La Gioia.
E un'altra storia d'amore, ma decisamente più nera.
Un amore tra un ragazzo cresciuto troppo in fretta, abituato ad arrangiarsi e a guadagnare vendendo se stesso per mantenere la madre, e una professoressa che non è mai cresciuta, chiusa in casa con genitori opprimenti, chiusa nelle sue fantasie adolescenziali condite da musiche adolescenziali.
Gioia è così, vecchia fuori, con abiti dimessi e una felicità data dalle piccole cose, come la vittoria della Juventus e i suoi conigli.
Alessio è invece un ragazzo dalle mille maschere, uno che vuole fare soldi, ed è disposto a tutto per ottenerli, uno che non conosce l'amore, sa solo sfruttare gli altri a proprio vantaggio. Si traveste, si prostituisce, protetto da una madre altrettanto poco matura e uno zio/magnaccia. Quando Alessio vede Gioia, fra i corridoi della scuola, vede anche le sue fragilità. E diventa la sua prossima preda in uno strano rapporto tra vittima e carnefice, ma anche tra chi una maternità protettiva e accudente non l'ha mai conosciuta.
Si sviluppa così, su binari un filo prevedibili ma anche coraggiosi per il cinema italiano, un film che vede fare a gara di bravura una Valeria Golino torinese e irriconoscibile, e un Saul Nanni che si conferma stella nascente del nostro cinema. Entrambi trasformisti, entrambi romantici e feriti, danno vita a un film nero che nel richiamare le commediole anni '80 di un tempo, e giocando con una colonna sonora a tema, sterza verso una gioventù bruciata in modo diverso.
È un Madame Bovary dei giorni nostri, con una protagonista che scopre l'amore e si brucia in fretta. Non facile da incasellare, molto più da godere. A sorpresa.
Il Rapimento di Arabella
Holly non è Amanda, ma ci assomiglia molto.
O forse è Carolina Cavalli che ama scrivere protagoniste sfacciate, sicure di sé con delle fragilità ben nascoste e affidarle alla naturalezza di Benedetta Porcaroli.
Holly è quella che si credeva una bambina speciale e che cresciuta deve fare i conti con un presente incerto, una madre che manca e buchi nello spazio temporale. O almeno, così se li spiega lei, studentessa di fisica, e così finisce per rapire Arabella, che si finge la Holly del passato pur di scappare e fare un dispetto al padre scrittore (un Chris Pine assente in sala ma che ben parla italiano).
Non è facile amarla, Arabella, viziata e urlante, trova in Holly una figura che le risponde per le rime, senza trattarla da bambina e sperando di dare a lei quella chance per crescere più felice.
La loro fuga è fatta di incontri strani, di strani luoghi in cui soggiornare, di soldi da raccattare rubando o offrendosi come damigelle.
Sembra una fuga senza meta anche se una meta c'è e ci mette un po' per arrivare.
Troppo? Sì.
Perché a mancare è il ritmo, è l'equilibrio, in scene che si sommano senza efficacia, in un'addizione che non porta a un risultato leggero. Anzi.
Lo stile è quello indie, quello disincantato che Cavalli aveva mostrato al suo esordio, è la sua cifra stilistica, ma qui a mancare è una storia efficace, asciugata magari, almeno un pochino.
Un Anno di Scuola
C'è già tutto nel titolo.
L'ultimo anno di scuola di tre amici da sempre che vedono entrare nella loro classe e nella loro vita, una bella svedese che farà perdere la testa a due di loro.
Quello alternativo e intellettuale, ovviamente, e quello spaccone ma con le sue fragilità, va da sé. Che se la contendono rovinandosi l'amicizia, rovinando la vita anche a lei, che cerca amici, cerca la leggerezza.
Tra una festa alcolica e una fuga fuori confine, siamo per fortuna nell'era pre-social, con giovani che si guardano e si cercano e fanno sentire nostalgici.
Senza cercare l'originalità ma prendendo da Trieste l'alone decadente e l'accento delle parlate, fa battere il cuore qui e là e lo si ringrazia per questo.
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