Duse
Strano che un film biografico su Eleonora Duse non fosse stato prodotto prima, vista la lunga vita che ha il genere.
Arriva oggi, e sembra arrivare in ritardo. Ma soprattutto sbagliato.
Non tanto per la scelta, saggia, di raccontare una parte della vita della Divina, quella fra le due guerre, con l'ascesa del fascismo, i risparmi che se ne vanno e il ritorno alle scene come una costrizione con la salute che si fa più fragile, quanto per la sua protagonista.
C'è soggezione, ovviamente, a dover interpretare quella che è considerata la più grande attrice al mondo, che ha ridefinito i canoni di un mestiere e che ancora oggi viene acclamata e venerata. Pietro Marcello, chissà perché, ha scelto Valeria Bruni Tedeschi. Che purtroppo, come spesso fa, diventa semplicemente Valeria Bruni Tedeschi che fa Eleonora Duse, portando i suoi modi svampiti, la sua aria buffa, togliendo ogni alone di grandezza e mistero ed eleganza a una donna che ci si immaginava diversa.
Il film finisce per prendere i toni che ne dà l'attrice e anche nei momenti più sentiti e drammatici, la nota comica che si porta dietro non abbandona e affossa gli intenti. Intenti alti, come mostra la cura nella ricostruzione di un'epoca, nell'uso di materiali d'archivio che si sposano con quanto vediamo, ma se il pezzo di vita raccontato poteva essere interessante, con l'arrivo a teatro come nella politica di nuovi moti furiosi, la sceneggiatura eccede in urla, isterismi che non aiutano ad amarlo.
Ne esce un film semplicemente troppo italiano.
Elisa
Elisa è in una detenzione riabilitativa da 10 anni ma non ricorda quello che ha fatto.
Sa di aver ucciso la sorella, ha qualche flash, ma il resto la sua mente lo tiene nascosto.
Con l'arrivo di un criminologo nell'istituto, Elisa decide di accettare il suo aiuto ed essergli d'aiuto nei suoi studi, con sedute e conversazioni che la portano a ripensare ai suoi atti, cambiando poco a poco la sua idea di sé e la nostra idea di lei.
Leonardo Di Costanzo prosegue il suo discorso sulle carceri e se Ariaferma mostrava una certa denuncia su un sistema che non aiuta, qui siamo all'opposto, siamo in un modello virtuoso, immerso nella natura e che dà libertà alle colpevoli, per focalizzarsi sulle loro colpe.
Il ritratto di Elisa si costruisce sotto i nostri occhi, in modo misterioso e affascinante anche se -come il personaggio di Valeria Golino ci ricorda- a essere messa da parte è la vittima.
Un interrogativo che continua e a cui non si risponde nemmeno sul finale, per un film che sembra sfruttare il florido filone crime ma ha dalla sua una brava Barbara Ronchi a difenderne la legittimità .
Più che trovare risposte, si pongono domande e anche se finisce per essere un film non imperdibile, è interessante.
Ammazzare Stanca
Ammazzare Stanca, ma anche continuare a ritrovarsi film sulla mafia tutti uguali non è che diverte!
Siamo sempre lì, con il figlio del boss mafioso che inizia a farsi degli scrupoli, siamo sempre alle prese con personaggi sopra le righe e che l'uso di droghe rende ancora più macchiette, siamo sempre con omicidi spettacolari, bagni di sangue cruenti.
Certo, siamo in Calabria e non in Sicilia, sì, siamo alle prese con un pentito realmente esistito -Antonio Zagari- ma Daniele Vicari non ci dice niente di nuovo.
Anzi, sbaglia nel modo in cui ce lo racconta, a partire dal cast, sbagliato per età e fisionomie, con padre Vinicio Marchioni con pancia, figlio Gabriel Montesi che sembra suo coetaneo e una gestione della temporalità che poco si spiega, dentro e fuori dal carcere.
Inutilmente prolisso e efferato nel mostrarci gli omicidi, è lo scotto da pagare a ogni edizione: un film sulla mafia deve esserci.
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