7 settembre 2023

Venezia 80 - Io, Capitano | Origin | Green Border

La realtà irrompe nella Mostra.
Ed è una realtà fatta di razzismo, immigrazione e violenza.

Origin 

In realtà, razzismo non è più il termine corretto, parola così abusata da aver perso di forza.
In Origin, Ava DuVernay adatta il saggio della scrittrice premio Pulitzer Isabel Wilkerson che sostiene che alla base del razzismo imperante, alla sua origine appunto, c'è un sistema di società a casta, che premia i più forti, mira a indebolire, eliminare, i più deboli.
C'è un collegamento di fondo, quindi, tra schiavismo americano, il genocidio degli ebrei in Germania, la suddivisione in caste dell'India, paesi in cui non è il colore della pelle a fare da discriminante, ma il livello della società in cui ci si posiziona.


Una tesi complessa e affascinante che viene spiegata seguendo questa scrittrice nelle sue indagini, nei suoi giri per il mondo, mentre si scontra con altri professori e intellettuali.
Il problema, purtroppo, è puramente stilistico.
La scelta di una regista che aveva regalato un documentario da Oscar come XIII emendamento, asciutto e solido, nel voler creare un film di finzione per un Pamphlet in cui sfociano anche le tragedie personali di Wilkerson, i numerosi lutti che la coinvolgono durante le ricerche e parentesi di ricostruzione storica che finiscono per appesantire Origin, togliendoli la forza che di per sé avrebbe. 
Un peccato, perché soprattutto nella coda finale con la voice over che ripete concetti ormai chiari, la freccia si fa meno appuntita.

Green Border

Vuole immergerci nella realtà, Agnieszka Holland, un dovere per il cinema soprattutto in questi tempi violenti.
Ci porta quindi sul confine tra Polonia e Bielorussia, dove i migranti vengono rimbalzati da un lato all'altro come pedine politiche, dove i soldati diventano guardie senza scrupoli dove non ci si può fidare di nessuno.


Ci mostra famiglie in fuga dalla guerra che speravano in un percorso pulito, ci mostra volontari che combattono una loro guerra, interna e esterna per non finire in carcere, e ci mostra quelle guardie che, con dubbi etici e morali ancora possono salvare vite.
In un bianco e nero che toglie violenza e sembra così senza tempo, non c'è furberia in un racconto che fa aprire nuovamente gli occhi a 10 anni dai bombardamenti siriani e cerca di scuotere coscienze e politiche, soprattutto in un finale che denuncia la discriminazione, il sistema di casta, nell'accoglienza di persone e animali ucraini.
Anche questo è un dovere del cinema.

Io, Capitano

Ancora migranti, ancora viaggi nell'inferno, Ancora speranze che devono fare i conti con la realtà.
Ma siamo in Africa, questa volta, siamo con due giovani che lasciano le loro famiglie e la loro comunità per cercar fortuna in Europa. Per arrivarci, però, devono attraversare deserti e violenze, devono dividersi e affrontare la morte, la prigione, il mare.
C'è qui una sensibilità diversa, che si sente anche sulle spalle dello spettatore, portato a empatizzare meno per chi abbonda una sicurezza per l'incertezza, per chi non ascolta consigli e divieti. E ci si sente in colpa ad ammetterlo. 


Garrone, per fortuna, impreziosisce un racconto duro che già si è visto e sentito con tocchi di magia e fantasia, con i sogni che fanno capolino in quei giovani disperati chiamati a crescere in fretta. La cifra stilistica si ferma a un paio di episodi, e se ne vorrebbero di più.
C'è una comunità che nella tragedia si unisce, c'è un'umanità che emerge in mezzo a soprusi e violenze.
E c'è una regia che trova attimi di bellezza anche fra prigioni fatiscenti, barche arrugginite.
Si ferma a un passo dall'Italia, però, a un passo dal farsi politico. E pur mostrando con chi l'Italia fa accordi, le realtà che vengono sovvenzionate, Garrone si ferma in un attimo di speranza, in un grido di liberazione che è però una condanna.
Fare confronti, in questi casi, non è mai cosa giusta.
Ma se me lo si chiede, la forza di Green Border è maggiore.

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