Finalmente l'Alba
Sono gli anni della Dolce Vita, di Cinecittà che si popola di star americane che fanno sognare il popolo.
Fra cui Mimosa e la sorella, che provano ad entrare come comparse nel nuovo kolossal in produzione finendo per avere molto di più.
Ci si brucia, vicino a queste stelle, e Mimosa lo impara in una lunga notte fatta di gelosie e vendette, di menzogne e recite. È una faraona cattiva, Josephine Espereanto, non è un principe azzurro Sean Lockwood, e mentre fatica a credere alla sua fortuna, con un abito nuovo e una villa in cui festeggiare, Mimosa capisce in che gabbia poco dorata è finita.
Perché sono anche gli anni dell'omicidio Montesi, comparsa pure lei, pure lei parte di quelle feste esagerate in riva al mare.
Saverio Costanzo mescola realtà e finzione, ricostruisce un'epoca mostrandone i suoi lati oscuri e sembra diverso.
Non c'è l'intimità, non ci sono i silenzi e la poesia a cui ci aveva abituato.
C'è molto glamour, invece, portato avanti da un cast internazionale in cui Lily James si impone.
Ma funziona poco questa lunga notte, pensata più per un pubblico americano che per quello italiano, con i cliché sulla crescita femminile che abbondano.
Come la sua protagonista, Costanzo sembra fuori luogo in questo progetto che prosegue stancamente fino ad un'alba che tarda ad arrivare, e lo fa con una metafora leonina poco sottile e pure mal realizzata dagli effetti speciali.
Adagio
Visto da fuori, sembra che i registi italiani siano fermi agli anni della II Guerra Mondiale o dentro storie di criminalità.
Dopo Comandante e Finalmente l'alba, il terzo film in concorso che sventola tricolore è un Stefano Sollima che fa quello che gli riesce meglio: raccontare da una parte e dell'altra della criminalità, un'indagine.
Siamo sempre lì, con i cattivi che non si sa se sono i poliziotti corrotti impegnati in un'indagine poco ortodossa o quei criminali da incastrare per quanto fatto nel passato e per quanto stanno nascondendo del presente.
Il problema, per me, è sempre quello: che poco mi interessano queste storie, che di personaggi con ombre e luci, maschere e posizioni, sono stanca. Le vecchie glorie della Magliana si riuniscono svogliatamente per gestire il problema in cui il figlio di uno di loro è incappato, cercato da tre poliziotti che con i suoi video e i suoi coinvolgimenti vogliono non tanto fermare un crimine quanto guadagnarci.
È un film fisico e sporco Adagio, dove non mancano il sangue e la violenza e i volti e i corpi modificati, sciupati e sofferenti di Valerio Mastandrea, Pierfrancesco Favino, Adriano Giannini e Toni Servillo lo dimostrano.
Sullo sfondo, una Roma altrettanto sporca e calda, minacciata da un incendio e da continui blackout.
Solo sul finale capiamo com'è che di questi inseguimenti e di queste fughe dobbiamo interessarci, ma è ormai troppo tardi.
Sollima fa quello che gli si chiede, la sua regia resta solida e votata all'azione, con le musiche composte dai Subsonica a fare da contraltare.
Ma resta parte di quel cinema italiano di cui ormai sono stanca.
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