Sotto il segno di Al Pacino la mostra prosegue il suo corso, peccato che siano proprio i film in concorso a deludere, e non poco.
Fortunatamente, le sezioni collaterali risollevano un po' il clima.
The Humbling
Un Al Pacino show, con l'attore tornato in splendida forma che dà vita a un romanzo di Philip Roth in cui stranamente non si parla di un ebreo in crisi, ma di un attore in crisi.
Simon Axler è infatti un quasi 70enne, che senza amici e senza famiglia perde la voglia di recitare, di calcare il palco con il suo genio. Tentati ben due suicidi, si ricovera, iniziando una divertente quanto salvante comunicazione con un psicologo. Alla sua uscita, la vita prende un nuovo corso grazie all'incontro con la giovane Pegeen, figlia di amici e lesbica, di cui si infatuerà.
Il film va però oltre una trama da seguire, perchè ruota tutto attorno all'attore, alle sue smorfie, alla sua fisicità. Ed è un vero godere, ridendo a più riprese.
Levinson capisce che Pacino è il film, e lo segue e lo scruta, con primi piani intensi e la sua voce sempre in sottofondo, che reciti Shakespeare o le sue paure.
Assieme a lui, una Greta Gerwing appesantita ma non per questo meno convincente, anzi, sempre più una conferma.
Pur ruotando attorno a se stesso, pur non chiarendo del tutto alcuni punti, The Humbling conquista, analizzando in modo convinto la crisi di un uomo e di un attore, tema ormai sempre più caro e sempre più ricorrente in questa Mostra del Cinema., e che calza a pennello addosso a Pacino.
Manglehorn
Al Pacino è il mattatore anche per David Gordon Green, ma questa volta non tutto va per il verso giusto.
La colpa non è certo dell'attore, che regala un'altra interpretazione intensa nei panni di un altro uomo solo, con il suo lavoro, e un amore perduto probabilmente per sempre. Quello che proprio non funziona è la regia, così confusa e pretenziosa che passa da rallenti, a sovrimpressioni continue e un montaggio frenetico senza un apparente motivo, utilizzando anche in modo pesante la voice over.
La stessa sceneggiatura non è nulla di così originale, e a parte qualche battuta che fa sorridere, si parla ancora e sempre del cambiamento di un uomo che riabbraccia la vita, passando per redenzione d'amore e di famiglia.
Il cast è composto anche da una sprecata Holly Hunter e da un fastidioso (ma per ruolo) Harmony Korine.
Tutto già visto, quindi, e anche in un modo migliore.
3 Coeurs
Altra delusione arrivata dalla Francia, che propone un melodramma di quelli pesanti che non trova troppa ragione d'esistere. Ritroviamo anche in questo caso una coppia d'attore già passati per il concorso (Chiara Mastroianni e Benoìt Poelvoorde) e che già non avevano convinto in Le Rançons de la Gloire.
Pur abbandonando il buonismo, si è di fronte a un triangolo d'amore tra due sorelle e un burocrate, con la passione che non viene sopita né rivelata nonostante gli anni che passano, il matrimonio celebrato e il figlio nato.
La madre sorveglia e vede tutto ma non parla.
E allora, visto anche il finale prevedibile e l'ultima scena decisamente mal girata (rallenti, perchè sempre il rallenti?), per non parlare di una colonna sonora più adatta a un thriller, se ne sentiva davvero il bisogno di un film così?
Si sentiva il bisogno di seguire i rimorsi e i desideri di un uomo incapace di dire la verità?
Charlotte Gainsbourg non poteva passare la mano e magari chiedere di cambiare di tanto in tanto il suo guardaroba?
E poi, come e perchè è in concorso Jacquot?
Domande che rimarranno senza una risposta.
Terre Battue
L'esordio di Stéphane Demoustier è decisamente promettente, ma manca qualcosa, o forse di cose ce ne sono troppe.
Nel suo film, infatti, si parla di tennis, si parla di sport e pressioni giovanili, si parla di crisi lavorativa e di un uomo disposto a reinventarsi, si parla della fine di un matrimonio e del rapporto padre-figlio inevitabilmente chiamato ad approfondirsi.
Troppo, decisamente troppo per essere appieno approfondito e apprezzato.
Ma c'è qualcosa oltre a una regia ben curata che salva il film, ed è la giovanissima età di Charles Mérienne, promessa francese del tennis che se la cava più che egregiamente anche davanti la macchina da presa.
A fargli da genitori, il buon Olivier Gourmet e la nostra Valeria Bruni Tedeschi, madre infelice e lasciata da parte.
Nonostante i ritmi serrati dei dritti e dei rovesci, si prosegue però con molta lentezza, arrivando solo nel finale a smuovere la situazione chiudendo il tutto con estrema amarezza.
Niente di così rivelatore, tirando le somme, ma una visione passabile, prodotta dai fratelli Dardenne, che probabilmente girerà nei cinema d'essai.
31 agosto 2014
30 agosto 2014
Venezia 71 - She's Funny that Way | Anime Nere | Im Keller
Le sorprese più piacevoli sono finora state fuori concorso, e questa tedenza continua anche con due dei film presentati oggi.
Da un ritorno che si fa graditissimo a un documentario anomalo e per questo interessante, c'è di mezzo il primo italiano che si contende il Leone d'Oro, che paga però lo scotto di un ritardo di qualche mese per essere apprezzabile appieno.
She's Funny that Way
Di commedie così ce ne vorrebbero sempre!
Frizzanti, briose, divertenti, che immergono in un mondo zuccheroso e intrigante dal quale difficilmente vorresti uscire.
Peter Bogdanovich torna alla regia dopo 13 anni di astinenza e ci regala un film spumeggiante, dirigendo un nutrito cast di star perfettamente in sintonia e in parte.
Partiamo a conoscerli da Imogen Poots, stelletta in ascesa, che ha tutte le carte in regola per sfondare, che nei panni di Izzy sfonda invece nel mondo del teatro e poi del cinema grazie al caritatevole gesto del regista Owen Wilson, che dopo averla richiesta come escort per una notte, le dona 30'000 dollari per uscire da quel mondo e realizzare il suo sogno.
Peccato che il suo sogno sia quello di fare l'attrice, e Wilson se la ritroverà alla sua audizione assieme alla moglie e al collega che già tutto aveva scoperto. Ma gli altarini non finiscono qui, perchè a seguire Izzy attraverso uno stralunato detective c'è un ex cliente ossessionato da lei, che finisce in terapia dalla sua stessa psicologa (una Jennifer Aniston very bitch), legata a sua volta sentimentalmente allo sceneggiatore dello spettacolo da mettere in piedi.
In questo incastro di connessioni non mancano le situazioni ricche di equivoci, i raggiri e le sorprese che rendono la sceneggiatura del film solida e piena di colpi di scena: tante, tantissime le frasi da incorniciare, a partire da quella non poi così originale che Wilson snocciola alle sue amanti.
Si ride, quindi, parecchio e di gusto, lasciando da parte pensieri e godendoci uno spettacolo proprio come le commedie di un tempo sapevano fare, da Lubitsch a Allen.
Producono Wes Anderson e Noah Baumbach, colonna sonora altrettanto frizzante, cammei spettacolari che vi faranno sussultare!
Appena arriverà in sala, fatevi un piacere, non perdetelo.
Anime Nere
Siamo in Calabria, ma già dopo pochi minuti non si può non pensare a Napoli, non si può non pensare a Gomorra-La serie.
Un'altra famiglia mafiosa è infatti protagonista, una famiglia divisa al suo interno e con nemici pericolosi all'esterno. Composta da Luciano, fratello maggiore che dopo la morte del padre non vuole più avere legami con in traffici illeciti, da Rocco, emigrato a Milano che gestisce gli affari e da Luigi, scapestrato e bullo che tiene alle tradizioni e ai suoi soldi. Mina vagante, ma con il futuro già spianato, è Leo, figlio di Luciano che come Genny Savastano non ascolta i grandi, ma vuole farsi strada a suon di pallottole.
Il tema ricorrente della mostra -violenza chiama violenza- torna così ancora una volta, e le morti fioccheranno quando la guerra tra clan si fa imminente.
Francesco Munzi dirige sapientemente il suo film, con una fotografia grigia e pulita ma ben distante da quella brutalmente incantevole della serie Sky, ad alzare il tiro, però, un finale che non ti aspetti, che fa sussultare sulle poltrone.
Resta comunque quella sensazione di già visto e di ritardo.
Peccato.
Im Keller
Cosa fanno gli austriaci nelle loro cantine?
Con il senno di poi, forse era meglio non scoprirlo.
Da collezionare cimeli nazisti a suonare assieme alla propria band, da accudire come dei figli delle bambole inquietantemente realistiche a tenere prede di caccia, dal fare sport e lavatrici a luogo dove la violenza sadomaso si sfoga in maggior libertà.
Attraverso le cantine e i padroni di queste, Ulrich Seidl ci mostra un lato nascosto dei suoi concittadini, un lato metaforicamente tenuto sottoterra e che sorprende.
Tornato al documentario dopo la trilogia Paradise (Love. Faith, Hope), il regista si diverte e ci diverte, e grazie a un montaggio di contrappunto che non disdegna di mostrare scene forti (maschietti, preparatevi) riesce a dire la sua pur nascondendosi dietro una macchina da presa che installa il più delle volte al centro della stanza, inquadrandola in una geometria ordinata.
In questo racconto di scantinati e di vite c'è posto così per tutti, anche per i controsensi compresa la coppia schiavo-padrona (divertita e fiera di sé in sala) o la donna masochista che lavora a sostegno delle donne maltrattate.
Asciutto e composto, il documentario è di quelli da recuperare senz'altro, fidatevi.
Da un ritorno che si fa graditissimo a un documentario anomalo e per questo interessante, c'è di mezzo il primo italiano che si contende il Leone d'Oro, che paga però lo scotto di un ritardo di qualche mese per essere apprezzabile appieno.
She's Funny that Way
Di commedie così ce ne vorrebbero sempre!
Frizzanti, briose, divertenti, che immergono in un mondo zuccheroso e intrigante dal quale difficilmente vorresti uscire.
Peter Bogdanovich torna alla regia dopo 13 anni di astinenza e ci regala un film spumeggiante, dirigendo un nutrito cast di star perfettamente in sintonia e in parte.
Partiamo a conoscerli da Imogen Poots, stelletta in ascesa, che ha tutte le carte in regola per sfondare, che nei panni di Izzy sfonda invece nel mondo del teatro e poi del cinema grazie al caritatevole gesto del regista Owen Wilson, che dopo averla richiesta come escort per una notte, le dona 30'000 dollari per uscire da quel mondo e realizzare il suo sogno.
Peccato che il suo sogno sia quello di fare l'attrice, e Wilson se la ritroverà alla sua audizione assieme alla moglie e al collega che già tutto aveva scoperto. Ma gli altarini non finiscono qui, perchè a seguire Izzy attraverso uno stralunato detective c'è un ex cliente ossessionato da lei, che finisce in terapia dalla sua stessa psicologa (una Jennifer Aniston very bitch), legata a sua volta sentimentalmente allo sceneggiatore dello spettacolo da mettere in piedi.
In questo incastro di connessioni non mancano le situazioni ricche di equivoci, i raggiri e le sorprese che rendono la sceneggiatura del film solida e piena di colpi di scena: tante, tantissime le frasi da incorniciare, a partire da quella non poi così originale che Wilson snocciola alle sue amanti.
Si ride, quindi, parecchio e di gusto, lasciando da parte pensieri e godendoci uno spettacolo proprio come le commedie di un tempo sapevano fare, da Lubitsch a Allen.
Producono Wes Anderson e Noah Baumbach, colonna sonora altrettanto frizzante, cammei spettacolari che vi faranno sussultare!
Appena arriverà in sala, fatevi un piacere, non perdetelo.
Anime Nere
Siamo in Calabria, ma già dopo pochi minuti non si può non pensare a Napoli, non si può non pensare a Gomorra-La serie.
Un'altra famiglia mafiosa è infatti protagonista, una famiglia divisa al suo interno e con nemici pericolosi all'esterno. Composta da Luciano, fratello maggiore che dopo la morte del padre non vuole più avere legami con in traffici illeciti, da Rocco, emigrato a Milano che gestisce gli affari e da Luigi, scapestrato e bullo che tiene alle tradizioni e ai suoi soldi. Mina vagante, ma con il futuro già spianato, è Leo, figlio di Luciano che come Genny Savastano non ascolta i grandi, ma vuole farsi strada a suon di pallottole.
Il tema ricorrente della mostra -violenza chiama violenza- torna così ancora una volta, e le morti fioccheranno quando la guerra tra clan si fa imminente.
Francesco Munzi dirige sapientemente il suo film, con una fotografia grigia e pulita ma ben distante da quella brutalmente incantevole della serie Sky, ad alzare il tiro, però, un finale che non ti aspetti, che fa sussultare sulle poltrone.
Resta comunque quella sensazione di già visto e di ritardo.
Peccato.
Im Keller
Cosa fanno gli austriaci nelle loro cantine?
Con il senno di poi, forse era meglio non scoprirlo.
Da collezionare cimeli nazisti a suonare assieme alla propria band, da accudire come dei figli delle bambole inquietantemente realistiche a tenere prede di caccia, dal fare sport e lavatrici a luogo dove la violenza sadomaso si sfoga in maggior libertà.
Attraverso le cantine e i padroni di queste, Ulrich Seidl ci mostra un lato nascosto dei suoi concittadini, un lato metaforicamente tenuto sottoterra e che sorprende.
Tornato al documentario dopo la trilogia Paradise (Love. Faith, Hope), il regista si diverte e ci diverte, e grazie a un montaggio di contrappunto che non disdegna di mostrare scene forti (maschietti, preparatevi) riesce a dire la sua pur nascondendosi dietro una macchina da presa che installa il più delle volte al centro della stanza, inquadrandola in una geometria ordinata.
In questo racconto di scantinati e di vite c'è posto così per tutti, anche per i controsensi compresa la coppia schiavo-padrona (divertita e fiera di sé in sala) o la donna masochista che lavora a sostegno delle donne maltrattate.
Asciutto e composto, il documentario è di quelli da recuperare senz'altro, fidatevi.
29 agosto 2014
Venezia 71 - 99 Homes | Reality | Ghesseha (Tales)
La seconda parte della giornata di ieri è proseguita all'insegna delle buone visioni, magari alcune non così eccezionali, ma che nel bene e nel male hanno saputo lasciare il segno.
Il festival inizia a riempirsi, e anche le code si fanno sentire, ma sembra che la fortuna, quest'anno, sia dalla mia parte.
In attesa della scorpacciata di oggi, prendete nota di questi titoli:
99 Homes
Mancano le star di richiamo, dicono, in questa edizione. Ma se le star presenti nei film sono prima di tutto star della recitazione, va più che bene.
Michael Shannon, sempre e per sempre inquietante, Laura Dern e soprattutto Andrew Garfield fanno a gara nel film di Ramin Bahrani, dimostrando ognuno di loro doti che un po' non ti aspetti, un po' sei felice di vedere confermate.
La vicenda che raccontano non è poi delle più facili, e mostra la crisi immobiliare americana, con centinaia di famiglie sfrattate dalle loro case perchè non in grado di pagare le rate del mutuo. Lo sguardo passa così da una di queste famiglie, quella di Dennis Nash, costretta in un motel e completamente al verde, per poi passare a quello degli sfrattatori, con Dennis stesso che diventa socio in affari dell'immobirialista che in questa crisi, nelle macerie di vite al lastrico, trova miniere d'oro.
Ma come l'America ci insegna, chi ha una coscienza non potrà mai essere uno squalo, e così la regia si sofferma anche troppo sui dubbi e i rimorsi che iniziano ad attanagliare Dennis.
Nel complesso, comunque, con le verità e i raggiri rivelati, e una realizzazione da gran produzione, 99 Homes merita, facendo riflettere e anche, inevitabilmente, commuovere.
Reality
Quentin Dupieux è stato finora un nome sconosciuto per la sottoscritta, ma non mancherò di certo nel recuperare qualche sua opera del passato visto come questa sua presentazione veneziana mi ha colpito.
Prendete un cameraman con il sogno nel cassetto di fare il regista, prendete un'idea creepy e parecchio basica per un film horror, prendete anche un altro regista, che il suo film -altrettanto creepy ma più che altro misterioso- lo sta già realizzando, aggiungeteci un presentatore televisivo vestito da ratto, un preside che si traveste da donna e la ricerca dell'urlo d'orrore perfetto e mescolate sapientemente il tutto tra realtà, sogno e finzione cinematografica.
Ne otterrete un film molto molto strano, ancora enigmatico e difficile da sciogliere, ma che per le situazioni al limite dell'assurdo che presenta e una realizzazione intelligente per quanto criptica, non potrà che conquistarvi.
Ghesseha (Tales)
Per raccontare l'Iran di oggi, Rakhstan Banietemad usa uno stile di racconto in racconto, passando da personaggio a personaggio immergendoci in piccoli tranche de vie.
Dal taxista con una famiglia da mantenere alle donne rifugiate in un centro di aiuto, dalla coppia moderna e fedifraga a quella più tradizionale e patriarcale, passando per anziani estereffatti della corruzione e del marcio del progresso, economico e burocratico. Il confronto uomo-donna e cittadino-politico la fa da padrone, e a legare queste storie è l'occhio di un regista, che con la sua camera riprende.
Alcune storie sono così riuscite e vicine a noi, altre più deboli si dimenticano e a tratti pesano, ma questo sguardo intenso verso un Paese che fatica a cambiare o cambia troppo rapidamente è di quelli intensi, e il finale, che omaggia il film stesso e il suo processo realizzativo, dà un senso profondo al tutto.
Il festival inizia a riempirsi, e anche le code si fanno sentire, ma sembra che la fortuna, quest'anno, sia dalla mia parte.
In attesa della scorpacciata di oggi, prendete nota di questi titoli:
99 Homes
Mancano le star di richiamo, dicono, in questa edizione. Ma se le star presenti nei film sono prima di tutto star della recitazione, va più che bene.
Michael Shannon, sempre e per sempre inquietante, Laura Dern e soprattutto Andrew Garfield fanno a gara nel film di Ramin Bahrani, dimostrando ognuno di loro doti che un po' non ti aspetti, un po' sei felice di vedere confermate.
La vicenda che raccontano non è poi delle più facili, e mostra la crisi immobiliare americana, con centinaia di famiglie sfrattate dalle loro case perchè non in grado di pagare le rate del mutuo. Lo sguardo passa così da una di queste famiglie, quella di Dennis Nash, costretta in un motel e completamente al verde, per poi passare a quello degli sfrattatori, con Dennis stesso che diventa socio in affari dell'immobirialista che in questa crisi, nelle macerie di vite al lastrico, trova miniere d'oro.
Ma come l'America ci insegna, chi ha una coscienza non potrà mai essere uno squalo, e così la regia si sofferma anche troppo sui dubbi e i rimorsi che iniziano ad attanagliare Dennis.
Nel complesso, comunque, con le verità e i raggiri rivelati, e una realizzazione da gran produzione, 99 Homes merita, facendo riflettere e anche, inevitabilmente, commuovere.
Reality
Quentin Dupieux è stato finora un nome sconosciuto per la sottoscritta, ma non mancherò di certo nel recuperare qualche sua opera del passato visto come questa sua presentazione veneziana mi ha colpito.
Prendete un cameraman con il sogno nel cassetto di fare il regista, prendete un'idea creepy e parecchio basica per un film horror, prendete anche un altro regista, che il suo film -altrettanto creepy ma più che altro misterioso- lo sta già realizzando, aggiungeteci un presentatore televisivo vestito da ratto, un preside che si traveste da donna e la ricerca dell'urlo d'orrore perfetto e mescolate sapientemente il tutto tra realtà, sogno e finzione cinematografica.
Ne otterrete un film molto molto strano, ancora enigmatico e difficile da sciogliere, ma che per le situazioni al limite dell'assurdo che presenta e una realizzazione intelligente per quanto criptica, non potrà che conquistarvi.
Ghesseha (Tales)
Per raccontare l'Iran di oggi, Rakhstan Banietemad usa uno stile di racconto in racconto, passando da personaggio a personaggio immergendoci in piccoli tranche de vie.
Dal taxista con una famiglia da mantenere alle donne rifugiate in un centro di aiuto, dalla coppia moderna e fedifraga a quella più tradizionale e patriarcale, passando per anziani estereffatti della corruzione e del marcio del progresso, economico e burocratico. Il confronto uomo-donna e cittadino-politico la fa da padrone, e a legare queste storie è l'occhio di un regista, che con la sua camera riprende.
Alcune storie sono così riuscite e vicine a noi, altre più deboli si dimenticano e a tratti pesano, ma questo sguardo intenso verso un Paese che fatica a cambiare o cambia troppo rapidamente è di quelli intensi, e il finale, che omaggia il film stesso e il suo processo realizzativo, dà un senso profondo al tutto.
28 agosto 2014
Venezia 71 - The Look of Silence | Birdman | La Rançon de la Gloire
La prima parte di questa seconda giornata è all'insegna dei film in concorso, e a parte una visione poco più che passabile, gli altri sono titoli da segnare!
The Look of Silence
Oppenheimer torna a raccontarci le stragi indonesiane del 1965, ma dopo avercele mostrate, in tutta la loro naturalezza e insensatezza, ricostruite e raccontate dagli assassini in The Act of Killing, sposta la macchina da presa sullo sguardo di una vittima collaterale, di un uomo ora 44enne che non ha mai conosciuto il fratello, e di una famiglia ancora dilaniata dalla perdita. Attraverso i suoi occhi, le parole degli spietati killer che ancora si vantano delle loro imprese, ci appaiono ancora più crude e difficili da credere, pronunciate così, senza rimorso.
Il viaggio del regista per scoprire come e magari anche perchè Ramli è morto, si muove tra negazioni, rifiuti e una cultura per cui il passato è solo il passato.
Così appare il silenzio.
Ancora una volta, fotografia di straordinaria bellezza, e contrappunti da brividi. Si esce commossi e segnati.
Birdman
Dimenticate l'Innaritu delle storie corali ad incastro, questa volta il regista approda nella Hollywood più patinata ma si diverte a farne le beffe.
Il suo protagonista è infatti un Michael Keaton imprigionato nel ruolo del supereroe uomo-uccello, che cerca di far ripartire la sua carriera a Broadway. Ingaggiato un attore egocentrico e dotato (un redivivo e in splendida forma Edward Norton), dovrà passare per tre tragiche anteprime, e per un subconscio che lo tenta, per arrivare e tornare al successo.
Attorno a lui, una figlia annoiata (una bella e brava Emma Stone), attrici a pezzi (bentornata anche a Naomi Watts) e il più cinico dei manager.
Finale ricco di adrenalina, che riflette in modo geniale sul cinema di oggi, e sugli spettatori di oggi, lasciandoli così pienamente soddisfatti.
Nota di merito, la realizzazione composta di un (o più) piani sequenza, ritmati e incastrati nella batteria di Antonio Sànchez e nei corridoi dietro le quinte.
La Rançon de la Gloire
Commedia francese ambientata nel 1977 ma che ancora parla di crisi. Per superarla, due poveri immigrati in Svizzera decidono di fare il colpaccio: rubare le spoglie di Charlie Chaplin e richiedere un lauto riscatto.
Il divertimento a sprazzi è rovinato da una musica troppo tronfia e da situazioni fin troppo buoniste. Pasticciata anche la sceneggiatura, che inserisce un amore e un circo, così, per riempire.
Nulla di ché, quindi, nonostante qualche risata.
The Look of Silence
Oppenheimer torna a raccontarci le stragi indonesiane del 1965, ma dopo avercele mostrate, in tutta la loro naturalezza e insensatezza, ricostruite e raccontate dagli assassini in The Act of Killing, sposta la macchina da presa sullo sguardo di una vittima collaterale, di un uomo ora 44enne che non ha mai conosciuto il fratello, e di una famiglia ancora dilaniata dalla perdita. Attraverso i suoi occhi, le parole degli spietati killer che ancora si vantano delle loro imprese, ci appaiono ancora più crude e difficili da credere, pronunciate così, senza rimorso.
Il viaggio del regista per scoprire come e magari anche perchè Ramli è morto, si muove tra negazioni, rifiuti e una cultura per cui il passato è solo il passato.
Così appare il silenzio.
Ancora una volta, fotografia di straordinaria bellezza, e contrappunti da brividi. Si esce commossi e segnati.
Birdman
Dimenticate l'Innaritu delle storie corali ad incastro, questa volta il regista approda nella Hollywood più patinata ma si diverte a farne le beffe.
Il suo protagonista è infatti un Michael Keaton imprigionato nel ruolo del supereroe uomo-uccello, che cerca di far ripartire la sua carriera a Broadway. Ingaggiato un attore egocentrico e dotato (un redivivo e in splendida forma Edward Norton), dovrà passare per tre tragiche anteprime, e per un subconscio che lo tenta, per arrivare e tornare al successo.
Attorno a lui, una figlia annoiata (una bella e brava Emma Stone), attrici a pezzi (bentornata anche a Naomi Watts) e il più cinico dei manager.
Finale ricco di adrenalina, che riflette in modo geniale sul cinema di oggi, e sugli spettatori di oggi, lasciandoli così pienamente soddisfatti.
Nota di merito, la realizzazione composta di un (o più) piani sequenza, ritmati e incastrati nella batteria di Antonio Sànchez e nei corridoi dietro le quinte.
La Rançon de la Gloire
Commedia francese ambientata nel 1977 ma che ancora parla di crisi. Per superarla, due poveri immigrati in Svizzera decidono di fare il colpaccio: rubare le spoglie di Charlie Chaplin e richiedere un lauto riscatto.
Il divertimento a sprazzi è rovinato da una musica troppo tronfia e da situazioni fin troppo buoniste. Pasticciata anche la sceneggiatura, che inserisce un amore e un circo, così, per riempire.
Nulla di ché, quindi, nonostante qualche risata.
27 agosto 2014
Venezia 71 - Before I Disappear | One on One
La prima giornata in quel del Lido deve ancora finire.
In attesa di fare le ore piccole con Oppenheimer, primo film in concorso, e di scoprire cosa ha combinato Iñárritu con Birdman domani mattina, ci sono già le prime parole da spendere su quanto visto finora, che mette in spolvero le Giornate degli Autori.
Nonostante qualche inconveniente tecnico (vedi allarme antincendio in sala che blocca la proiezione, e che riparte da quel quarto d'ora prima dello stop), l'aria che si respira è già quella frenetica di un Festival ben avviato. Anche se, all'entusiasmo iniziale va' ad aggiungersi una delusione di gran lustro.
Before I Disappear
Dopo l'Oscar con il cortometraggio Curfew, Shawn Christensen ha deciso di dare una nuova linfa al suo soggetto, portandolo al mondo del lungometraggio e infittendo la trama.
Il risultato è decisamente fresco e ironico, nonostante un soggetto non poi così nuovo: un aspirante suicida si vede -più volte- richiamato alla vita dalla sorella, che gli affiderà volenti o nolenti la nipote. Questa, genietto scorbutico, dopo l'inizale diffidenza lo conquisterà, dandogli una ragione per non morire e per fare i conti con un lutto, e una vita, da affrontare.
La realizzazione di Christensen è di quelle indie che tanto piacciono, e che punta soprattutto su una musica preponderante fatta di grandi classici del rock che parte e riempie la scena portandola ad essere quasi una collezione di videoclip. Ad alzare il tono, gli ottimi interpreti provenienti dal mondo serial come Emmy Rossum (sempre splendida e vera), Paul Wesley e Ron Perlman. Ma a batterli tutti ci pensa la giovanissima Fatima Ptacek, incredibile Sophia che con Richie/Shawn instaura un'alchimia a prova di bomba.
Speriamo di vederlo presto nelle sale, se lo merita.
One on One
Kim Ki-duk alla violenza c'ha già abituato. Dopo lo scandaloso (ma anche un po' ridicolo) Moebius, torna a Venezia con un film chiaramente politico, che nelle sue intenzioni vuole denunciare un mondo e una realtà insensata ma che continua a persistere in Corea e non solo.
Violenza genera violenza, vendetta genera vendetta, e anche chi sta nel giusto, cade inevitabilmente in un circolo vizioso dal quale difficilmente si esce a suon di sangue e torture.
E così la morte di una ragazzina scatena la furia di un manipolo di uomini altrettanto soli e annichiliti dalla vita, alla ricerca di una verità di volta in volta rimbalzata.
Diversamente dal solito, però, pur non risparmiando nessuna scossa elettrica, nessuna martellata e nessun colpo, il regista si lascia andare a un profluvio di parole, infarcendo così un film sulla carta potente, di tanta, troppa, retorica e morale. Spiegoni come se piovesse, quindi, che vanno a impoverire un messaggio e anche una realizzazione, insolitamente fiacca e priva di quella fascinazione a cui il coreano ha abituato.
In attesa di fare le ore piccole con Oppenheimer, primo film in concorso, e di scoprire cosa ha combinato Iñárritu con Birdman domani mattina, ci sono già le prime parole da spendere su quanto visto finora, che mette in spolvero le Giornate degli Autori.
Nonostante qualche inconveniente tecnico (vedi allarme antincendio in sala che blocca la proiezione, e che riparte da quel quarto d'ora prima dello stop), l'aria che si respira è già quella frenetica di un Festival ben avviato. Anche se, all'entusiasmo iniziale va' ad aggiungersi una delusione di gran lustro.
Dopo l'Oscar con il cortometraggio Curfew, Shawn Christensen ha deciso di dare una nuova linfa al suo soggetto, portandolo al mondo del lungometraggio e infittendo la trama.
Il risultato è decisamente fresco e ironico, nonostante un soggetto non poi così nuovo: un aspirante suicida si vede -più volte- richiamato alla vita dalla sorella, che gli affiderà volenti o nolenti la nipote. Questa, genietto scorbutico, dopo l'inizale diffidenza lo conquisterà, dandogli una ragione per non morire e per fare i conti con un lutto, e una vita, da affrontare.
La realizzazione di Christensen è di quelle indie che tanto piacciono, e che punta soprattutto su una musica preponderante fatta di grandi classici del rock che parte e riempie la scena portandola ad essere quasi una collezione di videoclip. Ad alzare il tono, gli ottimi interpreti provenienti dal mondo serial come Emmy Rossum (sempre splendida e vera), Paul Wesley e Ron Perlman. Ma a batterli tutti ci pensa la giovanissima Fatima Ptacek, incredibile Sophia che con Richie/Shawn instaura un'alchimia a prova di bomba.
Speriamo di vederlo presto nelle sale, se lo merita.
One on One
Kim Ki-duk alla violenza c'ha già abituato. Dopo lo scandaloso (ma anche un po' ridicolo) Moebius, torna a Venezia con un film chiaramente politico, che nelle sue intenzioni vuole denunciare un mondo e una realtà insensata ma che continua a persistere in Corea e non solo.
Violenza genera violenza, vendetta genera vendetta, e anche chi sta nel giusto, cade inevitabilmente in un circolo vizioso dal quale difficilmente si esce a suon di sangue e torture.
E così la morte di una ragazzina scatena la furia di un manipolo di uomini altrettanto soli e annichiliti dalla vita, alla ricerca di una verità di volta in volta rimbalzata.
Diversamente dal solito, però, pur non risparmiando nessuna scossa elettrica, nessuna martellata e nessun colpo, il regista si lascia andare a un profluvio di parole, infarcendo così un film sulla carta potente, di tanta, troppa, retorica e morale. Spiegoni come se piovesse, quindi, che vanno a impoverire un messaggio e anche una realizzazione, insolitamente fiacca e priva di quella fascinazione a cui il coreano ha abituato.
Rectify - Stagione 2
Quando i film si fanno ad episodi.
In attesa di sbarcare in quel di Venezia per seguire per voi -ma soprattutto per me- la Mostra del cinema, c'è ancora tempo da dedicare al mondo serial dopo i premi consegnati la scorsa notte.
E che serie.
Una serie ingiustamente snobbata dagli Emmy, che i suoi protagonisti meriterebbero senza esitazione.
Già lo scorso anno Rectify aveva ricevuto fior fior di critiche entusiastiche, di complimenti elargiti a Aden Young, capace di calarsi nei panni dello scarcerato Daniel Holden in modo incredibile.
Con questa stagione, il livello di intensità delle interpretazioni e degli episodi stessi non cambia, anzi, si fa se possibile ancor più profondo.
A una settimana dall'uscita dal braccio della morte, Daniel si trova in coma, pestato a sangue da Bobby Dean, portando la famiglia ad un nuovo dramma da affrontare.
La calma, la rabbia che scorre inevitabile, sono condensate in momenti, mentre i pensieri, i dubbi e la difficile mente di Daniel ci è mostrata in flashback e sogni, che lo riportano nuovamente alla vita, nuovamente a una libertà da saper gestire.
Negli episodi successivi ci si concentra ancor più sulla questione giudiziaria della sua scarcerazione e dell'omicidio di Hanna, infittendo il mistero attorno ad essa e aggiungendo tasselli importanti per andare a capire cosa successe quella notte.
Daniel stesso cerca di fare chiarezza, e inviato suo malgrado in esperienze ad alto tasso lisergico, troverà almeno alcune delle risposte che cerca.
Ma basteranno? Non secondo procuratori e senatori, che nella sua vicenda, nella sua vita e nei 20 anni già trascorsi, vedono solo la questione politica, e propongono un patteggiamento che potrebbe, o forse no, mettere la parola fine al tutto.
Ma Rectify non è solo Daniel, è l'approfondimento di tutte le vite inevitabilmente coinvolte e cambiate per sempre nel giro di una notte, di 20 anni.
E così anche la sorella Amantha, rimasta bloccata nella sua di vita, pian piano si smuove, allontanandosi anche dal fratello che forse lei sola non ha mai abbandonato.
Anche il rapporto tra la madre e il patrigno ha il suo peso nei 10 episodi, ma a catturare l'attenzione è soprattutto il matrimonio in crisi, l'instabilità emotiva tra Ted Junior e Tawney, che lo stesso Daniel mette in discussione.
Il finale intenso e ad alto tasso di ansie, è solo la ciliegina sulla torta di una serie, e una stagione, che coinvolge come poche, che fa trattenere il fiato e immerge in un mood di rarefazione, di calma e di profondità.
La riprova è nei dialoghi, secchi, ironici, con parole che non girano attorno ma vanno subito al cuore.
La riprova e in una fotografia luminosa e quasi celestiale, che incornicia il volto di tutti.
La riprova è nel piccolo capolavoro dell'episodio Donald the normal, dove la lacrime scorrono spontanee.
La riprova, è in ogni situazione, in ogni momento, di una serie che fortunatamente ha ancora da dire, e che il prossimo anno scioglierà, lentamente, a suo modo, nuovi nodi.
In attesa di sbarcare in quel di Venezia per seguire per voi -ma soprattutto per me- la Mostra del cinema, c'è ancora tempo da dedicare al mondo serial dopo i premi consegnati la scorsa notte.
E che serie.
Una serie ingiustamente snobbata dagli Emmy, che i suoi protagonisti meriterebbero senza esitazione.
Già lo scorso anno Rectify aveva ricevuto fior fior di critiche entusiastiche, di complimenti elargiti a Aden Young, capace di calarsi nei panni dello scarcerato Daniel Holden in modo incredibile.
Con questa stagione, il livello di intensità delle interpretazioni e degli episodi stessi non cambia, anzi, si fa se possibile ancor più profondo.
A una settimana dall'uscita dal braccio della morte, Daniel si trova in coma, pestato a sangue da Bobby Dean, portando la famiglia ad un nuovo dramma da affrontare.
La calma, la rabbia che scorre inevitabile, sono condensate in momenti, mentre i pensieri, i dubbi e la difficile mente di Daniel ci è mostrata in flashback e sogni, che lo riportano nuovamente alla vita, nuovamente a una libertà da saper gestire.
Negli episodi successivi ci si concentra ancor più sulla questione giudiziaria della sua scarcerazione e dell'omicidio di Hanna, infittendo il mistero attorno ad essa e aggiungendo tasselli importanti per andare a capire cosa successe quella notte.
Daniel stesso cerca di fare chiarezza, e inviato suo malgrado in esperienze ad alto tasso lisergico, troverà almeno alcune delle risposte che cerca.
Ma basteranno? Non secondo procuratori e senatori, che nella sua vicenda, nella sua vita e nei 20 anni già trascorsi, vedono solo la questione politica, e propongono un patteggiamento che potrebbe, o forse no, mettere la parola fine al tutto.
Ma Rectify non è solo Daniel, è l'approfondimento di tutte le vite inevitabilmente coinvolte e cambiate per sempre nel giro di una notte, di 20 anni.
E così anche la sorella Amantha, rimasta bloccata nella sua di vita, pian piano si smuove, allontanandosi anche dal fratello che forse lei sola non ha mai abbandonato.
Anche il rapporto tra la madre e il patrigno ha il suo peso nei 10 episodi, ma a catturare l'attenzione è soprattutto il matrimonio in crisi, l'instabilità emotiva tra Ted Junior e Tawney, che lo stesso Daniel mette in discussione.
Il finale intenso e ad alto tasso di ansie, è solo la ciliegina sulla torta di una serie, e una stagione, che coinvolge come poche, che fa trattenere il fiato e immerge in un mood di rarefazione, di calma e di profondità.
La riprova è nei dialoghi, secchi, ironici, con parole che non girano attorno ma vanno subito al cuore.
La riprova e in una fotografia luminosa e quasi celestiale, che incornicia il volto di tutti.
La riprova è nel piccolo capolavoro dell'episodio Donald the normal, dove la lacrime scorrono spontanee.
La riprova, è in ogni situazione, in ogni momento, di una serie che fortunatamente ha ancora da dire, e che il prossimo anno scioglierà, lentamente, a suo modo, nuovi nodi.
26 agosto 2014
Emmy 2014 - Il Red Carpet
Dopo i vinti e i vincitori, è il caso di passare al lato leggero della serata, quello che, nel bene e nel male catalizza più sguardi del resto: gli abiti, signore e signori, il red carpet!
All'insegna del rosso e dei suoi derivati, e dei toni più soft, le star hanno saputo sfoggiare abiti da rubare e abiti da far arrestare.
Queste le migliori e le peggiori per la sottoscritta, e dulcis in fundo, anche un piccolo sguardo per rendere più felici le donzelle.
Le Migliori
Taylor Schilling - TonoSuTono riuscito in parte, grazie al trucco
Alexandra Daddario - TonoSuTono #2 ma son fica lo stesso
Allison Williams - 2 metri di gambe e sto benissimo lo stesso
Natalie Dormer - La faccia da stronza non me la tolgo e, sì, Orange is the New Black
Kerry Washington - Sì, Orange is the New Black
Lena Heady - Sarà, ma il black è tanto rock
Anna Gunn - MILF alla riscossa
Julia Roberts - MILF alla riscossa #2, con il tempo si migliora
January Jones - Perchè Don ti tradiva? Perfetta.
Lizzy Caplan - Una vera Master of sex... e di eleganza
Le Peggiori
Michelle Dockery - Eleganza e freddezza british, ma l'effetto foulard no
Claire Danes - Trucco e parrucco perfetti, abito, invece, proprio no
Christina Hendricks - Che è successo ai suoi capelli? Che è successo al suo stilista?
Zooey Deschanel - Che è successo alla Zooey che conoscevamo? Ridatecela.
Kaley Cuoco - No ai capelli corti, no al vestito a balze, no a quelle spalle da nuotatrice
Sofia Vergara - Le forme in mostra anche no, non con quei lustrini almeno
Sarah Paulson - American Horror Dress
Lena Dunham - No comment
Anche l'occhio femminile vuole la sua parte
Matthew McConaughey
Aaron Paul
Jon Hamm
Emmy 2014 - I Vincitori
In una serata -o nottata- dal ritmo sostenuto grazie alla conduzione di Seth Meyers, gli Emmy hanno saputo stupire, o deludere, con i suoi premi, con il ricordo sentito di Robin Williams e con siparietti epici come questo:
Praticamente a mani vuote se n'è uscito Orange is the New Black, battuto sul lato comedy dall'inaffondabile Modern Family, mentre Jim Parsons si è portato a casa l'ennesimo Angelo Alato.
Sul fronte miniserie/film TV spicca invece quel gioiellino di Fargo mentre a sorpresa l'inglese Sherlock sbanca con ben 3 premi lasciando al super favorito The Normal Heart "solo" quello di categoria.
Ma la sezione più importante, e più attesa, era sicuramente quella drama che vedeva il confronto tra titani tra Breaking Bad e True Detective. Il risultato finale è 5-1, con Matthew McConaughey che cede a Bryan Craston, con tutti gli altri attori premiati e anche la sceneggiatura. Solo Cary Joji Fukunaga può così dirsi soddisfatto, mentre i fan non possono che ritenere più dolce l'addio a una serie perfetta.
In attesa di sparlare e parlare di frivolezze (leggasi red carpet) nel tardo pomeriggio, una nota a parte sulla copertura italiana dell'evento: finalmente visibile in chiaro grazie a Rai4 ma affidato a dei commentatori imbarazzanti (tra cui un Gene Gnocchi fuori luogo e fuori tempo), a dei traduttori lenti e mal gestiti a livello audio.
Il prossimo anno, cercate per lo meno di avere degli esperti o qualcuno che almeno sia interessato alla premiazione, nel caso, contattatemi pure.
Detto ciò, ecco categoria per categoria, i premiati della serata:
Miglior serie drammatica:
- Breaking Bad
- Downton Abbey
- Game of Thrones
- House of Cards
- Mad Men
- True Detective
Miglior serie commedia:
- Louie
- Modern Family
- Orange Is The New Black
- Silicon Valley
- The Big Bang Theory
- Veep
Miglior miniserie:
- American Horror Story: Coven
- Bonnie & Clyde
- Fargo
- Luther
- The White Queen
- Treme
Miglior film televisivo:
- Killing Kennedy
- Muhammad Ali’s Greatest Fight
- Sherlock: His Last Vow
- The Normal Heart
- The Trip To Bountiful
Miglior attore protagonista in una serie drammatica:
- Bryan Cranston — Breaking Bad
- Kevin Spacey — House of Cards
- Jon Hamm — Mad Men
- Jeff Daniels — The Newsroom
- Woody Harrelson — True Detective
- Matthew McConaughey — True Detective
Miglior attrice protagonista in una serie drammatica:
- Michelle Dockery — Downton Abbey
- Claire Danes — Homeland
- Robin Wright — House of Cards
- Lizzy Caplan — Masters of Sex
- Kerry Washington — Scandal
- Julianna Margulies — The Good Wife
Miglior attore non protagonista in una serie drammatica:
- Aaron Paul — Breaking Bad
- Jim Carter — Downton Abbey
- Peter Dinklage — Game of Thrones
- Mandy Patinkin — Homeland
- Jon Voight — Ray Donovan
- Josh Charles — The Good Wife
Miglior attrice non protagonista in una serie drammatica:
- Anna Gunn — Breaking Bad
- Maggie Smith — Downton Abbey
- Joanne Froggatt — Downton Abbey
- Lena Headey — Game of Thrones
- Christina Hendricks — Mad Men
- Christine Baranski — The Good Wife
Miglior attore protagonista in una serie commedia:
- Ricky Gervais — Derek
- Matt LeBlanc — Episodes
- Don Cheadle — House of Lies
- Louis C.K. — Louie
- William H. Macy — Shameless
- Jim Parsons — The Big Bang Theory
Miglior attrice protagonista in una serie commedia:
- Lena Dunham — Girls
- Melissa McCarthy — Mike & Molly
- Edie Falco — Nurse Jackie
- Taylor Schilling — Orange Is The New Black
- Amy Poehler — Parks And Recreation
- Julia Louis-Dreyfus — Veep
Miglior attore non protagonista in una serie commedia:
- Andre Braugher — Brooklyn Nine-Nine
- Adam Driver — Girls
- Ty Burrell — Modern Family
- Jesse Tyler Ferguson — Modern Family
- Fred Armisen — Portlandia
- Tony Hale — Veep
Miglior attrice non protagonista in una serie commedia:
- Julie Bowen — Modern Family
- Allison Janney — Mom
- Kate Mulgrew — Orange Is The New Black
- Kate McKinnon — Saturday Night Live
- Mayim Bialik — The Big Bang Theory
- Anna Chlumsky — Veep
Miglior attore protagonista in una miniserie o film televisivo:
- Chiwetel Ejiofor — Dancing On The Edge
- Martin Freeman — Fargo
- Billy Bob Thornton — Fargo
- Idris Elba — Luther
- Benedict Cumberbatch — Sherlock: His Last Vow
- Mark Ruffalo — The Normal Heart
Miglior attrice protagonista in una miniserie o film televisivo:
- Jessica Lange — American Horror Story: Coven
- Sarah Paulson — American Horror Story: Coven
- Helena Bonham Carter — Burton And Taylor
- Minnie Driver — Return To Zero
- Kristen Wiig — The Spoils Of Babylon
- Cicely Tyson — The Trip To Bountiful
Miglior attore non protagonista in una miniserie o film televisivo:
- Colin Hanks — Fargo
- Martin Freeman — Sherlock: His Last Vow
- Jim Parsons — The Normal Heart
- Joe Mantello — The Normal Heart
- Alfred Molina — The Normal Heart
- Matt Bomer — The Normal Heart
Miglior attrice non protagonista in una miniserie o film televisivo:
- Frances Conroy — American Horror Story: Coven
- Kathy Bates — American Horror Story: Coven
- Angela Bassett — American Horror Story: Coven
- Allison Tolman — Fargo
- Ellen Burstyn — Flowers In The Attic
- Julia Roberts — The Normal Heart
Miglior regia per una serie drammatica:
- Boardwalk Empire (Farewell Daddy Blues) — Tim Van Patten
- Breaking Bad (Felina) — Vince Gilligan
- Downton Abbey (Episode 1) — David Evans
- Game of Thrones (The Watchers On The Wall) — Neil Marshall
- House of Cards (Chapter 14) — Carl Franklin
- True Detective (Who Goes There) — Cary Joji Fukunaga
Miglior regia per una serie commedia:
- Episodes (Episode Nine) — Iain B. MacDonald
- Glee (100) — Paris Barclay
- Louie (Elevator, Part 6) — Louis C.K.
- Modern Family (Vegas) — Gail Mancuso
- Orange Is The New Black (Lesbian Request Denied) — Jodie Foster
- Silicon Valley (Minimum Viable Product) — Mike Judge
Miglior regia per una miniserie o film televisivo:
- American Horror Story: Coven (Bitchcraft) — Alfonso Gomez-Rejon
- Fargo (The Crocodile’s Dilemma) — Adam Bernstein
- Fargo (Burdian’s Ass) — Colin Bucksey
- Muhammad Ali’s Greatest Fight — Stephen Frears
- Sherlock: His Last Vow — Nick Hurran
- The Normal Heart — Ryan Murphy
Miglior sceneggiatura per una serie drammatica:
- Breaking Bad (Ozymandias) — Moira Walley-Beckett
- Breaking Bad (Felina) — Vince Gilligan
- Game of Thrones (The Children) — David Benioff; D.B. Weiss
- House of Cards (Chapter 14) — Beau Willimon
- True Detective (The Secret Fate Of All Life) — Nic Pizzolatto
Miglior sceneggiatura per una serie commedia:
- Episodes (Episode Five) — David Crane; Jeffrey Klarik
- Louie (So Did The Fat Lady) — Louis C.K.
- Orange Is The New Black (I Wasn’t Ready) — Liz Friedman; Jenji Kohan
- Silicon Valley (Optimal Tip-To-Tip Efficency) — Alec Berg
- Veep (Special Relationship) — Simon Blackwell; Tony Roche; Armando Iannucci
Miglior sceneggiatura per una miniserie o film televisivo:
- American Horror Story: Coven (Bitchcraft) — Ryan Murphy; Brad Falchuk
- Fargo (The Crocodile’s Dilemma) — Noah Hawley
- Luther — Neil Cross
- Sherlock: His Last Vow — Steven Moffat
- The Normal Heart — Larry Kramer
- Treme (…To Miss New Orleans) — David Simon; Eric Overmyer
Miglior attore guest star in una serie drammatica:
- Paul Giamatti — Downton Abbey
- Reg E. Cathey — House of Cards
- Robert Morse — Mad Men
- Beau Bridges — Masters of Sex
- Joe Morton — Scandal
- Dylan Baker — The Good Wife
Miglior attrice guest star in una serie drammatica:
- Diana Rigg — Game of Thrones
- Kate Mara — House of Cards
- Allison Janney — Masters of Sex
- Kate Burton — Scandal
- Margo Martindale — The Americans
- Jane Fonda — The Newsroom
Miglior attore guest star in una serie commedia:
- Nathan Lane — Modern Family
- Steve Buscemi — Portlandia
- Jimmy Fallon — Saturday Night Live
- Louis C.K. — Saturday Night Live
- Bob Newhart — The Big Bang Theory
- Gary Cole — Veep
Miglior attrice guest star in una serie commedia:
- Natasha Lyonne — Orange Is The New Black
- Uzo Aduba — Orange Is The New Black
- Laverne Cox — Orange Is The New Black
- Tina Fey — Saturday Night Live
- Melissa McCarthy — Saturday Night Live
- Joan Cusack — Shameless
Iscriviti a:
Post (Atom)