Tutto è partito da questo film, dai commenti entusiastici letti qua e là che andavano ad esaltare l'ennesimo ottimo lavoro di Denis Villeneuve.
Denis Villeneuve chi?
Esatto, proprio questa domanda mi ero posta mesi fa, e spinta dalla curiosità ma soprattutto dalla fama che questo regista si porta dietro mi sono vista dapprima quel piccolo gioiellino pieno di significato che è Polytechnique, poi il definito a merito capolavoro La donna che canta, uscendo dalla visione entrambe le volte scossa, affascinata e lieta di aver dato ascolto a quanto letto.
I sentimenti una volta finito Prisoners sono suppergiù gli stessi, anche se a soverchiare tutti è l'inquietudine palpabile che Villeneuve riesce ad immettere in ogni scena, in ogni personaggio e soprattutto nella soluzione finale e in quel finale sospeso.
A differenza dei due drammi precedenti, il regista si immerge a piene mani nel thriller d'autore, arrivando a questo script dopo che i nomi di Bryan Singer e Antoine Fuqua erano saltati.
Sicuramente diverso dal registro a cui mi aveva abituato, non per questo il film è di minor livello, visto che l'uso sapiente della macchina da presa, la fotografia cupa e noir e soprattutto l'atmosfera qui ricreata sono di un gran film, di quelli solidi e ben orchestrati.
La tranquilla vita di due famiglie di provincia è infatti sconvolta dall'improvviso rapimento delle loro due piccole figlie, scomparse nel nulla in un giorno di festa senza lasciare alcun tipo di indizio. Iniziano così le indagini del detective solitario Lockee da una parte, e quelle personali e vendicative del padre Keller Dover, pronto a tutto pur di conoscere la verità.
I primi sospetti ricadono subito sul mentalmente ritardato Alex Jones, per poi crescere, essere sminuiti e infine archiviati, almeno da parte della polizia. Le indagini dovranno infatti fare i conti con altri sospettati, in cui nessuno è escluso, fino ad arrivare a una soluzione del tutto imprevista e agghiacciante, che turberà quanto se non più dell'intera indagine.
Il classico confronto tra detective e giustiziere privato arriva qui ai vertici del genere, mostrando tutte le emozioni, spesso contraddittorie che muovono i due. In questo si riscattano dopo gli ultimi non brillanti ruoli della loro carriera un po' in panne Hugh Jackman e Jake Gyllenhaal, granitici e umani come da tempo non li si vedeva.
La caratterizzazione dei loro personaggi è quindi fondamentale per la riuscita del film, ma questo non sarebbe tale senza quel colpo di scena finale e soprattutto quella costruzione ricca di inquietudine che Villeneuve è riuscito a creare.
Grazie alle musiche di Jóhann Jóhannsson, all'interpretazione dell'un po' relegato in disparte Paul Dano e il senso di claustrofobia che la fotografia (non a caso nominata agli Oscars) riesce a dare, quello che ne esce è un film di genere solido e capace di annichilire lo spettatore, uscendo così dall'etichetta "thriller" per entrare di diritto in quella dei film riusciti alla grande.