Andiamo al Cinema
Gabriele Mainetti voleva fa' l'ammerigano.
E ci è riuscito, stupendo tutti con un film d'esordio che ha fatto scuola, che ha rinvigorito il cinema italiano che poi si è perso chissà dove e chissà quando in quelle commedie sempre uguali e in tentativi di fare le cose diverse che sempre tentativi e casi isolati e fenomeni momentanei sembrano.
Gabriele Mainetti voleva fa' la Marvel.
Ci ha riprovato, ancora più in grande, forte di quel successo d'esordio alzando la spanna e andando a inserirsi nei film dei supereroi diversi, che sposano la più giusta delle cause che è la Resistenza e che però puntava forse troppo in alto e troppe alte erano le aspettative di chi lo aspettava al varco e/o con curiosità, affossandolo di critiche o semplicemente sottolineando i difetti -che c'erano- in un film che vuole troppo e non sempre è a fuoco e non sempre è così originale, se dobbiamo sindacare.
Gabriele Mainetti vole fa' il Bruce Lee, ora.
E lo fa in un modo che non te lo aspetti.
Lo fa non tanto omaggiando/ scopiazzando/prendendo spunto dai film di arti marziali con cui è cresciuto, ma lo fa alla Gabriele Mainetti e quindi inserendo scontri, incontri, combattimenti all'ultimo sangue e coreografie pirotecniche nella sua Roma.
Una Roma popolare, una Roma degli ultimi, una Roma multietnica.
Basta l'inizio per capire le intenzioni del regista e del film, che mostra una Cina lontana, dove la legge del figlio unico era in vigore, per poi portarci a una sorella figlia unica che la sorella la cerca in quella che è un cosca criminale dedita a spaccio di droga e corpi.
Conosce il suo pubblico e conosce i suoi detrattori, Mainetti, e così regala una sequenza iniziale pazzesca per coreografie e tenacia, per movimenti di macchina e per bravura di attori e stunt che si muovono tra sottosuolo e cucine alzando sempre più il livello fino a quel colpo di scena che porta dritti dritti nel cuore dell'Esquilino di Roma, un quartiere dove il solo Alfredo resiste come roccaforte italica.
Cucina tipica, cucina familiare, anche se il capofamiglia la famiglia l'ha abbandonata per un amore cinese che unisce i destini di Mei, che la sorella la deve trovare e vendicare, e Marcello, cuoco e figlio di un padre sparito nel nulla, che in quella cucina si sta vedendo sfuggire la vita dalle mani.
Un incontro tra disperati, ma anche tra culture diverse che cercano di venirsi in soccorso e che devono espiare le stesse colpe e lo stesso lutto, con lei che si allena e non si dà per vinta e che è pronta a rischiare quella vita che potrebbe avere, finalmente, mentre lui fa un po' da Cicerone un po' da collante, un po' da personaggio buono con cui familiarizzare e con cui rompere la tensione.
Perché nei 138 minuti che compongono La città proibita è ovvio quello che interessa a Mainetti, ed è quello per cui ha provinato chissà quanti esperti di arti marziali per trovare gli attori giusti in Yaxi Liu e Chunyu Shanshan, chiamando poi l'esperto Liang Yang (dopo che il team di Jackie Chan è stato accantonato per la mancanza di un inglese comune) e affidandosi al cameraman Matteo Carlesimo in modo da rendere vere, reali, esagerate e spassose le scene di combattimento, che non dovevano scimmiottare quelle orientali, non dovevano nemmeno essere occidentalizzate, ma dovevano essere originali e adattarsi a un contesto che prevede un mercato coperto, un ristorante affollato e una stazione di servizio dei treni.
Sì, Gabriele Mainetti vuole fare il Bruce Lee, e ci riesce con una storia che ha sì tanti colpi e tanto sangue e tante ossa rotte e graffi non facili da guardare, ma ha anche un cuore romano che palpita grazie alla naturalezza di Enrico Borello e alla maternità rappresentata da una Sabrina Ferilli che il personaggio da Sabrina Ferilli lo sa sempre portare a casa.
Vorrei capire che succede a Marco Giallini, in parte ma più sbiascicante che mai, sempre meno attore e più personaggio, sempre più difficile da capire, ma mi limito ad apprezzarlo, anche se avrei sforbiciato alcune sue scene -quella canora, di sicuro- e avrei ridotto una coda finale che appesantisce una sceneggiatura che grazie ai combattimenti, alla presenza scenica di Yaxi Liu corre su binari solidi.
Gigioneggia con il pubblico, certo, tra una Roma notturna in sella a una vespa e canzoni disperate cantate a gran voce, ma il cinema di Mainetti punta sempre in alto, lo fa con una regia che si direbbe internazionale, o poco italiana, o semplicemente da regista che di film ne ha visti parecchi e non ha paura di osare.
Qui meno che mai, con scene di combattimento che convincono anche chi, come me, certe scene solitamente non le segue con interesse ma le coreografie, le idee, le trovate e l'uso di oggetti e ambienti divertono e esaltano. Dico sul serio. Più che la storia, semplice nel suo sviluppo e quasi scontata nell'amore che fa nascere, conta davvero la regia e conta la parte tecnica. Conta anche un'Italia finalmente attuale, con tutte le sue contraddizioni, che viene mostrata.
Se sono ancora qui a pensare a una donna di rosso vestita che cerca in tutti i modi di avvicinarsi a un boss da uccidere, il lavoro di Mainetti può dirsi riuscito.
Voto: ☕☕☕½/5
Vale più che mai la massima di Coppola, andare al cinema è come votare, abbiamo la seria occasione di votare per un film di menare davvero nostro, che è anche molto bello e con un cuore che fa provincia (di Roma), uno dei migliori tra quelli visti fino ad ora nel 2025. Cheers!
RispondiEliminaNon mi divertivo così da un sacco. Delizioso!
RispondiEliminaPer me è già film dell'anno. E Giallini patrimonio nazionale!!
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