In una casa in riva al mare, in un paesino desolato e grigio, stanno 4 preti e una suora.
Emarginati dalla Chiesa, privati delle loro funzioni, vivono malinconici ma senza troppi pensieri: un cane da corsa, da allenare e da far vincere, li tiene impegnati e li fa arricchire.
Tutto cambia quando un nuovo prete si unisce a loro, mandato in esilio, ricorda le loro colpe, quei bambini violentati o venduti, quei segreti svelati, quella violenza esplosa.
A ricordarlo, a fargli da monito, la litania che un senzatetto inizia a snocciolare alle porte del loro rifugio, in un racconto che non nasconde niente, nemmeno il più sordido dettaglio, su quanto quel nuovo prete ha fatto al suo corpo bambino.
La reazione, che si fa ovvia, è uno sparo. Uno sparo che non colpisce quel memento, ma colpisce la testa, la fa finalmente zittire e la libera dalle colpe.
Così facendo, però, iniziano le indagini da parte di un altro prete, giovane e bello, che interroga, che osserva, che potrebbe essere colpevole per primo.
Il tema dei soprusi da parte degli ecclesiastici torna, dopo l'Oscar di Spotlight si fa ancora più attuale.
Qui però non siamo nella Boston più moderna o più povera, non seguiamo le indagini di un team di giornalisti agguerriti, qui siamo in Cile, nel Cile di confine, e siamo dentro una casa dove l'espiazione non entra.
Si evita il carcere, ma non si rimedia agli errori, che siano di tipo innominabile verso quei bambini, che siano di un'omosessualità latente o che siano di vicinanza verso quel regime che ora non c'è più.
Si cerca di nascondere o di evitare la verità, ma questa non può che riemergere.
Il dramma diventa doppio, le vittime si moltiplicano e non sappiamo se trovare più insopportabile la freddezza di quei preti o le ossessioni di quel senzatetto, che porta in un girandola di orrori e di scelte dove la morale, cristiana in primis, non esiste.
Al mio primo Pablo Larraìn, non avendo ancora visto i suoi tre film precedenti (Tony Manero, Post Mortem, No - I giorni dell'abbandono), mi sono ritrovata chiusa in quella casa, stretta in quelle inquadrature claustrofobiche, in quei colori spenti e in quell'umanità alla deriva.
Lo sporco, la tristezza di una vita, li si sentono tutti, e tolgono il fiato passando da un interrogatorio all'altro, da un giorno all'altro.
Ne Il Club la regia è infatti più sapiente della scrittura, che lascia buchi e perplessità, anche in quel finale, dove finalmente una legge del contrappasso viene pattuita, lasciando però dubbi e possibili soluzioni che non potremo mai conoscere.
La visione fin troppo impegnata in questa fine inverno alla ricerca di leggerezza,non ha aiutato ad entrare nel giusto mood, nella giusta chiave di lettura, faticando a trovare simpatie, appoggi, a trovare quel di più in mezzo a quel crepuscolo perenne, a quell'umanità rinchiusa.
Regia Pablo Larraín
Sceneggiatura Guillermo Calderón, Daniel Villalobos e Pablo Larraín
Musiche Carlos Cabezas
Cast Roberto Farías, Antonia Zegers, Alfredo Castro, Alejandro Goic
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Un film che mi interessa parecchio e penso che a breve lo vedrò, anche se al momento non sono proprio in vena di impegnarmi troppo: dopo la scorpacciata dei film da Oscar ho bisogno di un po' di sana ignoranza!
RispondiEliminaMi sa troppo di film peso.
RispondiEliminaAnche io attualmente sono in cerca di leggerezza e quindi mi sa che per ora rimando, aspettando il giusto mood. Se mai arriverà un mood per una pellicola come questa... :)
non ne ho sentito molto parlare, ma sono curiosa, dopo la tua recensione, di recuperarlo...
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