19 luglio 2023

Östlund agli Esordi: The Guitar Mongoloid - Involuntary - Play

Andiamo al Cinema su PrimeVideo

Me l'ero ripromesso di approfondire la filmografia di Ruben Östlund, un regista che nel giro di 5 anni ha vinto la Palma d'oro a Cannes due volte e quest'anno è finito per esserne Presidente di Giuria.
Sono andata a caccia dei suoi inizi, che si trovano comodamente su PrimeVideo in lingua originale.

The Guitar Mongoloid

Una premessa è necessaria: siamo nel 2004, la qualità tecnologica è quel che è, soprattutto se ci troviamo davanti a un esordio.
In sordina.
Un esordio tipico di un regista da Festival, di quei film che ammetto candidamente di faticare a capire.
Sono scene che si accumulano, non c'è sceneggiatura o dialogo, c'è una macchina da presa che osserva, attori che improvvisano, altri che attori non sono, ignari di essere ripresi.
Siamo dalle parti delle candid-camera, con un giovanissimo chitarrista che suona per le strade di una cittadina creando sguardi divertiti o preoccupati, altri giovani che rubano goliardicamente biciclette, e le reazioni che ne seguono.


Ci si limita a questo, a una signora con disturbi mentali alla ricerca della sua bicicletta, degli ubriaconi che si provocano, il rapporto di amicizia fra quel chitarrista e un padre putativo che con lui ride e scherza.
E quindi?, viene da chiedersi.
Cosa ci vuole raccontare sulla società, Östlund? La sua indifferenza, il suo divertimento di fronte a battute che oggi etichetteremmo come scorrette?
Osserva, non si muove, solo per un attimo per mostrare il primo piano del suo protagonista sognante.
Il punto è che scena dopo scena, situazione dopo situazione, questi film da Festival ti imprigionano nella loro struttura, e quando nel finale rendono poetici dei sacchetti della spazzatura che volano in cielo -siamo distanti da American Beauty, ma neanche troppo come effetto- finisci pure per sorridere.
Il motivo non lo sai, forse solo perché il film è finito.

Involuntary

La premessa è necessaria anche qui: l'anno in questione è il 2008 e l'estetica così come i mezzi a disposizione in economia, sono quelli.
Quanto alla narrativa, siamo dalle parti di The Square, con molti personaggi che non si sfiorano nemmeno, con le loro storie di scontri, di dissidi interni, di situazioni al limite registrate a camera fissa.
Ci sono due adolescenti che si lasciano andare a balletti sensuali, pose provocanti, provocando anche i passanti e finendo per rovinare la loro amicizia in una serata alcolica dove la fraternità finisce.


C'è un'attrice che viaggia su un autobus guidato da un autista dal cuore spezzato che decide di fermare il viaggio finché il responsabile di una tenda rotta non esce allo scoperto.
C'è un'insegnante ligia e seria nel suo lavoro, quasi troppo per i colleghi che iniziano ad ignorarla e ad escluderla.
E ci sono gli scalmanati amici di sempre, che si ritrovano per una gita tutta al maschile dove l'esibizionismo di uno di loro eccede nei limiti arrivando all'aggressione.
Insomma, ci sono situazioni strane, esagerate, involontarie fino ad un certo punto, che si alternano e che avanzano senza sapere a che passo dal precipizio si fermeranno.


C'è un regista che ne sta al sicuro dietro una macchina da presa fissa, che scruta e registra.
Ci sono i momenti potenti, che siano lezioni sulla suggestione della massa o le confessioni a una moglie comprensiva.
E poi c'è il pubblico, che resta fuori da questo approccio molto di nicchia, non così appassionante ad essere sinceri. Parte di quelle visioni "da Festival" che a fatica porto a termine.

Play

Cambiano le cose con il terzo lungometraggio di Ruben Östlund, che nel 2011 ha scatenato un acceso dibattito pubblico in Svezia.
Quello che fa è partire da un fatto di cronaca, mostrandoci un gruppo di ragazzi che ruba un telefonino, minaccia e finisce quasi per rapire tre amici che potrebbero salvarsi, ma restano soggiogati seguendoli controvoglia, fino a dar loro i loro vestiti e ogni cosa.
Il punto è che chi ruba è nero.
E visto oggi, fa male per come ne escono questi ragazzi, per i facili commenti razzisti che possono nascere e per un'antipatia, per non dire odio, che nei loro modi violenti, esagerati, irrispettosi, hanno mantengono per tutto il film.


Facile avere a cuore il destino di tre ragazzini indifesi, chiaramente bullizzati, che non riescono a scappare o liberarsi anche se potrebbero farlo.
Inermi, si osserva quanto in là l'asticella viene alzata, allontanandosi dal centro della citta, finendo in campagna, finendo per scappare sopra un albero, a fare flessioni o gare di corsa pur di tornare a casa.
Sul finale, però Östlund dà la sua stoccata.
Riportandoci in qualche modo all'inizio: c'è un telefono che si dichiara essere il proprio, c'è una maggiore età a fare da peso, c'è una certa violenza, psicologica e fisica, in gioco contro chi si trova inerme. Questa volta però sono i genitori dei ragazzini bullizzati a bullizzare uno dei ragazzi neri in compagnia del solo fratellino, a dimostrare come la differenza non la faccia il colore della pelle, ma la classe di appartenenza. Ora che le case si sono viste, che la questione di quella culla abbandonata su un treno che spezza la tensione provocando interrogativi e risate, si risolve, il giudizio sui colpevoli si allarga, senza per questo riuscire a salvare qualcuno.


Non è un film facile e resta acerbo, affezionato anche in questo caso allo stile a macchina da presa ferma, e a un'estetica naturale senza troppi abbellimenti.
Ma di certo, come Forza Maggiore, mette dubbi, richiede riflessioni.
Senza fermarci alle più scontate.
I bravi registi, anche con budget risicati, possono questo.

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