Mondo Serial
Alla terza stagione la domanda è sempre quella: chi sono i veri mostri?
Sono gli assassini efferati che Netflix decide di ritrarre, o siamo noi spettatori che abbiamo fame di queste storie?
Alla terza stagione la domanda sembra essere fatta in modo ancora più forte, perché quello che Ian Brennan racconta (Ryan Murphy ha lasciato il campo a Brennan e Max Winkler per la creazione e la regia) non è la storia di Ed Gein, il macellaio di Plainfield, il mostro, nonostante il titolo, è la storia di Ed Gein e della sua influenza come Mostro.
Un serial killer, o forse solo un necrofilo e un ginofilo, un essere umano, prima di un mostro, vessato da un'educazione castrante in ogni senso, che con gli orrori protratti nell'indifferenza dei suoi vicini e compaesani ha creato scandalo, certo, ma anche solleticato la fantasia di scrittori e registi e l'emulazione di altri assassini seriali.
La storia di Ed Gein che viene raccontata su Netflix non pretende di essere una serie documentaristica, romanzando, lavorando molto con la fantasia, esagerando, come da produzioni Murphy.
Troppo?
Francamente sì, perché tra balletti e scene esplicite si spinge molto in là il limite della sopportazione e del fare di noi, spettatori, i mostri che non battiamo ciglio di fronte a scene raccapriccianti e non certo necessaria ai fini del racconto.
Non me ne voglia Charlie Hunnam, che si trasforma in modo irriconoscibile, che camuffa la sua voce e abbandona i modi da duro motocilista a cui ci aveva abituato per vestire i panni di un figlio sessualmente represso, di un contadino del Wisconsin, di un frequentatore di cimiteri che trova nei morti il materiale con cui esprimersi. La sua interpretazione è la parte da salvare e elogiare della serie, anche quando è chiamato a spingersi troppo in là, con Laurie Metcalf e Suzanna Son a supportarlo.
Quello che si sviluppa con la storia di Ed Gein è soprattutto un discorso sulla forza delle immagini e sul loro potere.
Quelle dei campi di sterminio nazisti e dei macabri esperimenti di Ilse Koch che hanno risvegliato qualcosa in Ed Gein, portando a emularla e a prenderla esempio, e quelle di Ed Gein stesso, che hanno fatto il giro dei giornali, che sono state rubate, trafugate, vendute all'asta. In un'America in crisi, un'America che doveva fare i conti con una morale diversa, la storia di Ed Gein, la sua immagine, diventa lo spunto a cui molti si ispireranno.
È così che entrano a gamba tesa nel racconto Alfred Hitchcock e Robert Bloch con il loro Psyco, ma soprattutto Anthony Perkins che nell'interpretare Norman Bates si ritrova a fare i conti con la propria sessualità e la propria carriera. Chiusa questa parentesi forse improvvisa, forse fuorviante, ma che fa intravedere il discorso che Brennan vuole portare avanti, se ne aprono altre che sempre al cinema riportano e che mostrano anche come il genere horror, chiamato a confrontarsi con gli orrori del reale e a esorcizzarli, cambia. Non più il thriller teso alla Hitchcock che scuote gli anni '60, ma lo slasher più urlato di Tobe Hopper e del suo Non aprite quella porta, fino ad arrivare al Buffalo Bill de Il Silenzio degli innocenti.
Sono storie che si specchiano e storie che si ispirano, sono storie che cercano di fare i conti con una realtà difficile da digerire ma anche così mostruosamente affascinante. Da sempre.
Peccato però che aprendo queste parentesi che vogliono e riescono a modo loro ad approfondire e a fare da campanello allo spettatore su un discorso più profondo, proprio la storia di Ed Gein si perde.
Un'amicizia sfruttata male in cui anche Adeline Watkins finisce per volere la sua parte, un arresto prematuro e frettoloso e delle cure in un ospedale psichiatrico in cui Gein guadagna di umanità e il racconto perde la bussola, ricamandoci così tanto da metterci dentro una strizzatina d'occhio a Mindhunter, con un'intervista mai avvenuta e un incrociarsi con Ted Bundy che sembrano una triste copia di una terza stagione che chissà se arriverà mai.
Con la storia di Ed Gein, Brennan sembra quindi voler raccontare troppo.
Sembra cercare di avvertirci, di giudicarci e criticarci, sembra voler mostrare il potere delle immagini, comprese quelle più difficili da guardare che puntellano la serie a farne un discorso meta-voyeuristico, ma aprendo parentesi senza saperle gestire al meglio, dimenticando Ed e romanzando fin troppo la sua storia. Non tanto perché ci si aspettava un documentario, da questa stagione, una maggiore aderenza ai fatti, quanto per come e quando la storia viene romanzata.
Sono i momenti camp, sono i balletti e le fantasie dentro la testa di Ed o forse solo di Brennan a far storcere il naso e a far perdere di forza il messaggio di un Mostro e delle sue mostruosità capaci di influenzare la letteratura, il cinema, gli altri, per decenni.
Ancora oggi, in cui però qualcosa è cambiato, vuoi la sensibilità, vuoi la linea del corretto, facendo anche delle polemiche che ne sono seguite un altro capitolo di una storia che non smette di far parlare di sé. E quindi della società.
Voto: ☕☕☕/5
Tra le tre stagioni, quella con meno barocchismi alla Ryan Murphy, basta digerire il fatto che sia storicamente molto poco accurata, qui si parla di iconografia di Ed Gein e poco più. Spero che per lo meno, serva a rimettere il buon Charlie sotto i riflettori, qui è stato molto bravo. Cheers
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