Cara ragazza bianca, bentornata alla Winchester Academy.
I problemi sono gli stessi della prima stagione: c'è il razzismo a dividere, c'è la rabbia che deve trovare sfogo, ma ora le cose sono forse anche più complicate.
Perché proprio i bianchi non ci stanno più a non essere riconosciuti come categoria, a non avere le loro marce, i loro Pride, a cui partecipare. E si lamentano allora, in modo decisamente idiota, stupido, ignorante al massimo. Come sopravvivere in una Università in cui questi bianchi proclamano le loro lamentele, mentre chi ancora combatte per avere diritti e non soffrire viene deriso pubblicamente, ancora e ancora?
Ci si prova, armandosi di quella rabbia e rispondendo tono su tono alle cattiverie sparate in rete, ci si prova facendo del buon giornalismo d'inchiesta, ci si prova organizzando incontri e boicottandoli (da segnalare Tessa Thompson come special guest), ci si prova cercando di capire dove sta il razzismo, come superarlo, anche se il documentario in questione sembra più un tentativo per recuperare la ex.
L'amore, già.
Sempre di mezzo anche se la causa da supportare è importante, sempre ad intralciare, colorare, arricchire le vicende di giovani leader impegnati, che non disdegnano una sveltina, i benefici di essere improvvisamente una vittima da compatire, un eroe ribelle da conquistare e soddisfare.
A legare gli episodi singoli e le voci che si accavallano e cercano una loro strada, una società segreta legata a doppio filo alla storia di un'Università razzista fin dagli albori, una società di cui rintracciare le origini, le vie a seguire, con simboli che improvvisamente fanno capolino, vengono notati.
In una stagione fortemente politica e mai così attuale e necessaria in un'America divisa da un Presidente che non nasconde certe posizioni, c'è spazio però anche per un episodio intimo e toccante come il Capitolo IX, dove le lacrime scorrono copiose e fanno intravedere quella Sam vulnerabile, figlia che dal suo essere diversa, figlia di diversità, trova la forza -anche un po' troppo tagliente- di combattere.
Il finale lascia aperte nuove porte, dando un senso anche alla voice over di Giancarlo Esposito, e inutile dire che, pur da ragazza bianca o forse anche per questo, fremo per la nuova stagione, quanto mai necessaria.
Voto: ☕☕☕☕/5
Nanette
Hannah Gadsby la conoscevo per il ruolo tetro e ironico in quella bella comedy che era Please Like Me.
Ignoravo una carriera decennale da stand-up comedy, genere sempre apprezzato qui, in cui si divoravano puntate di David Letterman, e risalito nell'indice di gradimento grazie a una serie come The Marvelous Mrs. Maisel in cui i segreti di una comica da cabaret vengono raccontati.
Il mondo, improvvisamente, è esploso per Nanette, acquisizione lungimirante di Netflix. Lunghi articoli, tweet commossi, e un interesse che per me si ingrandiva.
Uno spettacolo di un'ora circa, alla Sidney Opera House, in cui Hannah ripercorre la sua storia, i suoi successi da comica, la sua vita fatta di cadute e di ferite da far guarire, permettendo agli altri di farsi una risata.
Una vita difficile, in cui pur essendo gay, deve fare i conti con un'educazione omofoba, cresciuta com'è in una Tanzania in cui l'omosessualità è stata un reato fino al 1997.
Ripeto: fino al 1997.
Ma c'è un'urgenza in Hannah, nel suo voler ribadire la difficile adolescenza, il difficile rapporto con la madre, e gli stereotipi di oggi, un'urgenza che deve fare i conti con il suo successo, il suo usare la sua storia su un palco, anno dopo anno, per guarire da traumi e paure.
Non ce la fa più.
Non è così, consegnando agli altri tensione e risate, che si guarisce. Non è nemmeno con la rabbia, ma è con la verità. Anche quando urlata, quando una risata non la fa scemare.
E la si vede, Hannah, capace di gestire minuziosamente i tempi su quel palco, di capire le reazioni del pubblico, concedendogli una tregua, una liberazione, parlando di queste tregue e liberazioni, analizzando il suo ruolo, la sua comicità.
Mettendo a buon frutto gli studi d'arte, facendo di Van Gogh e Picasso simboli ancora una volta dei giorni nostri. Il primo, pazzo, ma non per questo da ammirare, da ammirare invece per le cure a cui si è sottoposto, per il fratello che gli è sempre stato affianco, il secondo, geniale innovatore ma misogino e pedofilo.
E qui, nasce la quanto mai attuale discussione del saper dividere l'artista dalla sua arte, e qui, io e Hannah ci troviamo in disaccordo, spiace dirlo, anche se la sua tesi, la sua forza, le riesco a condividere comunque, anzi, quasi a sostenere a mia volta, pur con qualche dubbio che non è riuscita a togliermi.
Sarà che mi aspettavo tanto, che gli elogi, le lacrime continuavo a sentirle attorno a me, ma Nanette mi è piaciuto, certo, l'ho trovato importantissimo e degno di ogni visione o articolo a lui dedicato, ma non così diverso da altri pezzi comici personali, non così rivoluzionario o qualsiasi altro assoluto letto in rete.
Sono pugni allo stomaco quelli che Hannah ci dà, sono informazioni per capire di più, sono -proprio come fatto da Picasso- altre prospettive.
Questo sì.
E per questo, oltre che per avermi fatto scoprire quello che è diventato il mio inno (Rilo Kiley - A better son/daughter), la ringrazio.
Ci vuole coraggio a trasformare uno show comedy in uno show che i brividi li fa venire per altro, in cui si aspetta una risata per sciogliersi un po', ritrovandosi invece con rabbia e applausi a far da sfogo, Hannah ce l'ha avuto, e anche se qua e là con lei dissento, non posso che amarla, per un'invettiva intelligente, per una condivisione necessaria, per una soluzione finale che sta all'amore, bellissima.
Voto: ☕☕☕☕/5
Con la seconda stagione di Dear White People sono a metà visione. Manca l'effetto sorpresa della prima e l'episodio bomba, ma mi sembra ancora interessante. Attendo fiducioso di vedere il resto, confidando nel Capitolo IX.
RispondiEliminaHannah Gadsby in Please Like Me mi sembrava fulminata forte. :)
Gli show di stand-up comedy non li reggo, sarà che in Italia siamo abituati a comici stand-down uno peggio dell'altro. Però questo non sembra troppo comedy, quindi magari è meglio dei soliti...
Vero, manca l'effetto sorpresa e forse un po' più di unitarietà al discorso, ma ci sono sempre tante belle cose, tante belle riflessioni e pure lacrime che non ti aspetti.
EliminaI comici italiani non li riesco più a definire tali dopo qualche immersione nel mondo di quelli americani, o come in questo caso australiani. Hannah non dice niente di così rivoluzionario -e sul discorso arte/artista faticherai anche tu, credo-, ma assesta bei pugni allo stomaco, che mai come in questo periodo fan riflettere.