Chiedo solo un piccolo favore: avere metà della figaggine che si porta appresso Blake Lively.
O forse no, rimangio tutto, perché probabilmente quella figaggine mi costringerebbe ad accettare solo ruoli da vera fica, in cui sfoggiare solo la bellezza, un guardaroba da urlo, facendomi invidiare dagli altri.
Chiedo un altro piccolo favore: avere una vita cool come quella di Blake Lively in Un piccolo favore, o forse no, forse una vita che ti costringe -che, su, permettersi è esagerato- di scolarti martini a profusione non è poi una così bella vita. Lo si capisce che c'è qualcosa che non va, che quella passione con un marito sottomesso e senza ispirazione qualcosa nasconde.
E infatti Blake sparisce, svanisce nel nulla chiedendo all'amica Anna Kendrick un piccolo favore: tenere suo figlio per qualche ora. Finirà per tenerlo per più giorni, per tenersi pure il marito e la casa.
E Blake dov'è?Dov'è sparita?
Chi o cosa c'è dietro la sua sparizione?
Io intanto chiedo un altro piccolo favore: non diventare una madre come Anna Kendrick, di quelle socialmente impegnate, capaci di fare tutto, pure tenere un vlog con ricette e giochi da proporre agli infanti.
Che i vlog fatico davvero a capirli, poi, mostrarmi non fa per me, perdere tempo in video pure.
Un piccolo favore sembrava un film frivolo, di quelli perfetti per intrattenere come il migliore dei guilty pleasure.
E così è, non aspettatevi svolte profonde o improvvisi pipponi filosofici.
No.
C'è di peggio, però, c'è la decisione di sforare quei 90 minuti che solitamente sono perfetti per questo tipo di film, allungando il brodo, volendo mostrare di più di un piano che inizia a fare acqua, di un'investigazione che non sembra avere molto senso.
Si va avanti allora, piuttosto stancamente perdendo mordente ed efficacia, sconfinando dal guilty al trash.
Che orrore!
Certo, si può ridere, ci si può stupire, ma in fondo ci si annoia pure in situazioni prevedibili e in altre troppo assurde, con la Kendrick moderna Nancy Drew che scava in un passato fatto di cliché e di comparsate sparse a caso.
Onore comunque alla bellezza della Lively, al suo altrettanto assurdo guardaroba, alla bellezza di Henry Golding (e no, non farò partire un pippone sull'importanza della scelta di un attore con origini miste che siamo nel 2018 e non dovrebbe più essercene bisogno) all'entrata in scena finale di Andrew Rannells.
Onore ad uno script divertente e divertito, ma a cui bastava chiedere un semplice favore: fermarsi in tempo, prima che fosse troppo tardi, prima che si rovinasse tutto.
Voto: ☕☕/5
Verissimo, il guilty pleasure è bello quando dura poco. Vedasi la bruttissima fine che ha fatto Unreal, trascinandosi stagione su stagione alla fine.
RispondiEliminaPerò la bellezza da dea greca della Lively, la promessa di quei martini a gogò e di colpi di scena più o meno assurdi, attirano.
Attirano e intrattengono tranquillamente, finchè non si eccede e tutto diventa troppo trash. Come visione disimpegnata natalizia è però una garanzia.
EliminaPuoi avere solo il nostro affetto.
RispondiEliminaCiao Lisa.
Ahah, me lo faccio bastare ;)
EliminaConfermo appieno la figaggine di Blake Lively. Se sorvoliamo sulle origine miste di Henry Golding, sorvoliamo anche sul magico bacio tra la bionda e la mora. Per quanto riguarda il film in sè: una brutta copia di Gone Girl?
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