Un finale quasi con il botto, oserei dire.
Ora non resta che riprendere le forze, aspettare le decisioni della giuria ma soprattutto annunciare il Leone d'oro.
L'appuntamento è per domani!
The Last Duel
Chi lo avrebbe mai detto che avevamo ancora bisogno di un film medievale?
Chi lo avrebbe mai detto che avremmo avuto ancora bisogno di una produzione americana che si cala nella Francia medievale?
Chi lo avrebbe mai detto che la coppia da Oscar Matt Damon-Ben Affleck si sarebbe riformata per firmare (assieme alla giusta parte femminile Nicole Holofcener) una sceneggiatura basata su fatti veri del Medioevo?
Chi l'avrebbe mai detto che la coppia Matt Damon-Jodie Comer avrebbe potuto funzionare?
Chi lo avrebbe mai detto, infine, che Ben Affleck poteva ridursi così, imbarazzante conte libertino dagli inguardabili capelli biondi? Non che Matt Damon con il suo mullet medievale sia meglio, eh...
Adam Driver no, lui è bello in qualunque epoca o mondo lo piazzi.
E invece, nonostante un inizio confuso in cui gli anni e i fatti passano veloci, di questo Last Duel si aveva bisogno.
Perché capita la struttura, il coinvolgimento è alto.
Tre punti di vista, quello di due uomini e una donna fra loro, sposata con il primo e violentata dal secondo che decide di squarciare un tabù che era tale anche all'epoca e denunciarlo. La questione viene risolta con un duello, l'ultimo concesso in Francia per una simile accusa.
Ed è qui, ovviamente che l'84enne Ridley Scott dà il meglio di sé, in un finale concitato e sanguinolento dove il tifo è spudorato e il fiato trattenuto.
Forse di un simile film non si aveva bisogno, e la sceneggiatura è ben distante dalla perfezione di Will Hunting, ma per come intrattiene, per come ci fa a suo modo riflettere un film che sembra prendere Les Choses Humaines visto ieri e calmarlo in modo brutale nel Medioevo, funziona.
Eccome.
E sono la prima a stupirmene.
Un Autre Monde
È la fine di una trilogia di cui ammetto di non aver visto i capitoli precedenti.
È un nuovo film che immerge la coppia Lindon-Brizé nel mondo del lavoro. Quello che pensa ai profitti, non ai singoli, quello che taglia posti come fosse numeri, non persone.
Lindon interpreta il capo di una sezione di una grande multinazionale. Devoto al suo lavoro, c'ha rimesso un matrimonio felice che ha mandato la moglie all'inferno, parole sue. La separazione è tutt'altro che facile, tra rimproveri e prese di coscienza, con un figlio che sembra rimetterci a livello psicologico.
Ma a lavoro non va meglio, con nuovi tagli richiesti, nuove pressioni e una vita che sembra spesa su carte e tentativi di mediare l'inevitabile.
È un film secco, un film che immerge in un mondo del lavoro per me distante. Uomini alienati, in cui le emozioni non entrano.
Ma l'emozione, invece, qui c'è.
Passa nel volto scavato di Lindon, passa in quegli scambi famigliari, passa in un finale, lieto in parte, seppur scontato.
Fare paragoni non mi è possibile, ma posso ammettere che io che rifuggo certi discorsi, certi mondi, dal cinema chiedo altro.
Anche se l'impegno, la parte presa, è più che condivisibile.
On the Job: The Missing 8
Una lunghezza fiume, di 208 minuti che non poteva che spaventare.
E invece che ritmo che c'ha Erik Matti!
Anni dopo quanto successo nel primo capitolo, l'azione si sdoppia, rimanendo dietro le sbarre con omicidi commissionati a incarcerati impossibili da rintracciare, ma si sposta anche fuori per abbracciare il lavoro del giornalismo a sua volta corrotto da politici che mettono a tacere sparizioni e intrallazzi a suon di fake news.
Non è così un piccolo giornale di resistenza gestito da due fratelli agli opposti: uno integerrimo, l'altro grato del ruolo di intrattenitore via radio datogli dal sindaco attuale.
Tutto cambia quando vittime delle sparizioni sono proprio 8 giornalisti compreso quel fratello integerrimo e suo figlio.
Ritrovarli, capire la verità, aprire finalmente gli occhi diventa una missione per lo Zio radiofonico di una città che nasconde troppa polvere sotto i suoi tappeti.
Una ricerca che coinvolge le figlie, quei giornalisti sopravvissuti e pure quell'omicida con sensi di colpa che da dietro le sbarre cercherà di tornare a casa.
Girato in un'ipotesi pop con il pensiero che corre a Tarantino e ai suoi bagni di sangue, il film di Matti è una goduria da vedere con le scene che riempiono e si dividono lo schermo, con una colonna sonora esagerata e movimenti di camera che tra piani sequenza e scene d'azione mandano in brodo di giuggiole.
Decisamente di genere ma pure di denuncia, la sua durata si fa sentire, ovviamente, ma non in modo pesante. Anzi, chiedendo ancora più partecipazione.
La produzione di HBO Asia potrebbe garantire un passaggio diviso in episodi, e ne varrebbe davvero la pena.
Non è stato facile, lo ammetto.
Ma la colpa è tutta mia, che entrando a scatola chiusa non sapevo che questa volta un minimo di preparazione era richiesta.
Perché il nuovo film di Masaaki Yuasa parla di tradizioni e di teatro nipponico, di storie note che anche se introdotte inizialmente per aiutare lo spettatore più sprovveduto, possono sopraffare.
È un musical, Inu-oh, perché i cantastorie giapponesi mettevano in note leggende e pezzi di storia per raccontarli di villaggio in villaggio. A questa tradizioni si discostano i due protagonisti, un ragazzo cieco per una maledizione, un altro deforme per un'altra. Diventano il musicante e il performer più richiesti, diversi dalla tradizione, dirompenti e misteriosi, con una maschera a coprire un volto che è meglio non vedere ad aumentare il mistero. Come fossero delle rock star di oggi, suonano il rock, e cambiano le cose.
Sono performance senza limiti, eclatanti e ipnotiche le loro. E compongono buona parte del film.
Forse arriva e convince più chi è preparato, forse mi sono persa causa anche un posto pessimo sotto schermo, ma pur con qualche dubbio, pur con qualche parte a mancarmi, che visione, che canzoni, che storia che ho visto!
Adam Driver va benissimo ovunque tranne che in quella saga proveniente da una galassia lontana lontana...
RispondiEliminaPovero Adam, anche se effettivamente non aveva la faccia giusta...
EliminaQui, in quanto cavaliere libertino, ci sta benissimo.