11 luglio 2025

The End

Andiamo al Cinema

Viene da chiedersi cos'è successo a Joshua Oppenheimer.
Il regista premio Oscar per il documentario The Act of Killing che aveva proseguito la sua indagine sul male dell'essere umano in The Look of Silence ha deciso di passare al cinema di finzione.
E non a un cinema di finzione qualunque, al musical.
Un musical ambientato in un futuro distopico, ovviamente, e post apocalittico, ma un futuro in cui tutta questa distruzione e questa morte, questo caldo dato da incendi senza fine, non lo sentiamo né lo vediamo.
Restiamo nel freddo, nell'asettico bunker in una famiglia che di responsabilità per la crisi climatica ne ha ma non se le prende, anzi, ha deciso di rifugiarsi in tempi non ancora sospetti in una grotta di sale ben arredata.
Ha portato con sé libri e arte, dipinti e vasi, una scorta di cibo, tutti i prodigi scientifici per averlo sempre, del cibo fresco da consumare, e vive lì, sottoterra, servita e riverita da una chef stellata, da un cameriere dal cuore infranto e da un dottore cinico.


Padre e madre e figlio, restano senza nome e con i loro segreti, ovviamente, con le loro domande sospese, con sensi di colpa che si evita di affrontare.
È l'arrivo di una sopravvissuta in quella grotta di sale a cambiare le cose, a far prevalere l'istinto di sopravvivenza ma anche a scalfire l'apparente perfezione in cui credono di vivere, facendo fare a quel figlio domande scomode, indagini più precise, accuse più difficili da sostenere.
Ora, raccontato così, il film sembra interessante.
Sembra anche in linea con i temi trattati da Oppenheimer, non a caso The End parte dall'idea di un documentario su un bunker d'epoca sovietica in Repubblica Ceca.
Il problema è come ci viene raccontata questa storia.
E non tanto per una fotografia che non può che incantare, prendendo le saline sotterranee sarde come una scenografia naturale che toglie il fiato, non tanto quel bunker arredato che cambia stagione dopo stagione perché altro lì sotto non c'è da fare.


Ma per i momenti musicali, tra l'imbarazzante e il poco incisivo, per le prove di attori a disagio in ruoli che non evolvono e che sembrano macchiette che ripetono domande, struggimenti, finzioni. Tilda Swinton non sembra crederci nemmeno lei, con quelle parrucche a sottolineare ancor più la maschera di perfezione che ha deciso di portare avanti. Michael Shannon recita sempre lo stesso ruolo, burbero e un po' beone, incapace di connettersi con i veri sentimenti e stretto al suo potere. George MacKay e Moses Ingram hanno la voce, lo sguardo dubbioso, spaventato, ma zero chimica fra loro, a rendere poco credibile il naturale evolversi di una storia di accoglienza in una storia d'amore.
Gli altri tre attori che stanno sullo sfondo (Bronagh Gallagher, Tim McInnerny, Lennie James) e che per scala gerarchica dovrebbero essere quelli con più cuore e con cui empatizzare, finiscono a loro volta per essere macchiette sacrificabili in numeri musicali senza passione.


Non aiuta la durata fiume di 148 minuti, che appesantisce la visione, che appesantisce lo spettatore, che di queste canzoni impossibili da ricordare, tutte uguali e tutte cantate a fil di voce (e pensare che MacKay mi aveva stupito con Sunshine on Leith), tutte fuori contesto in un film che affronta una storia che non sembra dire niente di nuovo, denunciare qualcosa di nuovo, fare una critica un minimo più incisiva, un minimo più originale delle altre.
Non fosse stata per l'aria condizionata della sala, mi sarei alzata volentieri per tornarmene a casa, e non capita spesso.
Quasi mai.
Ma non vedevo l'ora di vedere finire questo The End.

Voto: ☕½/5

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