Andiamo al Cinema
Siamo in un futuro distopico…
Sì, lo so, sono stanca anch'io di futuri distopici vista la distopia in cui già viviamo, ma diamo fiducia a Stephen King che nel 1987 così ha immaginato il 2025, e a Edgar Wright, che ha avuto l'accortezza di spostare il calendario a un futuro non troppo lontano.
Siamo in un futuro distopico, dicevo, e i poveri sono poveri, i ricchi sono ricchissimi.
Fin qui, niente di nuovo.
Se i poveri vogliono diventare ricchi sembrano potercela fare in un solo modo visto che lavorare significa accettare condizioni lavorative pessime, per non dire pericolose, l'unico modo, dicevo, è partecipare a giochi ancor più pericolosi che vanno in diretta TV per l'intrattenimento generale e un montepremi che potrebbe cambiare la vita, se il gioco non fosse truccato.
Ben Richards è il protagonista prescelto, quello che non è così matto da partecipare ma che le circostanze (una figlia malata e una moglie che nemmeno svendendosi ai clienti più ricchi riesce a guadagnare abbastanza per pagarle le medicine), beh, le circostanze lo portano a provarci. Se Ben non ha un lavoro è perché è una testa calda che la testa non l'abbassa e si fa notare fin dalla fila d'attesa del grande Network (e la N maiuscola con Wright non è un caso), e non è un caso nemmeno se Ben fa faville al test d'ingresso grazie ai pregressi lavorativi pericolosi come sopra e diventa uno dei running men che devono scappare per un mese a letali assassini, con il pubblico stesso a poter fare la spia sui suoi movimenti e un video al giorno da mandare per farlo uscire allo scoperto davanti alle cassette postali.
Ce la farà?
Sarà l'uomo giusto che finalmente riuscirà a vincerlo il gioco con il suo montepremi da capogiro pari a un miliardo in valuta Schwarzenegger?
Edgar Wright più che fare un remake del film L'Implacabile proprio con Arnold, adatta nuovamente L'uomo in fuga scritto da Stephen King sotto lo pseudonimo Richard Bachman.
E si diverte, e si vede dai tanti easter eggs kinghiani che ci piazza per la gioia dei più attenti puntatori (inserisci meme di Di Caprio).
Dicevo, si diverte, dando vita a un film d'azione dove le scene d'azione contano più della trama, dove cerca di inserirne a forza, ancora e ancora, facendo un classico film a tappe con l'eroe che deve cercare aiutanti e camuffamenti che finisce però per perdere il senso della realtà.
Lo perde quando diventa chiaro che la realtà può essere modificata, quando il gioco, già truccato in partenza (e non serviva Bradley incappucciato per spiegarcelo, cosa succede al pubblico del programma? cosa ci sta succedendo se ogni sceneggiatore ci piazza lo spiegone di turno?), dicevo, quando il gioco truccato finisce per esserlo in modo esagerato modificando video e dichiarazioni e patti. Come si continua a giocare in un gioco senza regole? In un film in cui tutto può succedere?
Perché se Ben può vincere o perdere in ogni modo, cosa me ne viene della sua battaglia personale, della sua lotta agli ideali, delle sue schermaglie ad alta quota con il cacciatore che mostra la sua identità?
La lunga corsa di Glen Powell disseminata di tappe e aiutanti, di nomi altisonanti che si prestano al gioco si interrompe bruscamente prima della fine con l'interesse che cola a picco.
Funzionano le scene d'azione prese di per sé, quelle sì, con Glen che non disdegna l'uso di trucchi e protesi (come già in Hit Man e Chad Powers, la sua faccia proprio non gli va?) e non disdegna nemmeno di mostrare i suoi muscoli (il suo corpo quello sì che gli va) e funziona il suo essere uno sbruffone simpatico, una canaglia che sembra essere quella giusta per portare a termine il gioco e forse cambiare una società così divisa per classi.
Si prendono il loro spazio Lee Pace, che resta mascherato purtroppo per buona parte del film, il gigioneggiante Colman Domingo, il despota Josh Brolin e la donzella Emilia Jones che da donnicciola superficiale diventa una rivoluzionaria nel giro di qualche chilometro, hai capito il fascino di Ben Richards? Ma se devo dire il mio preferito, oltre William H. Macy come Q del sottosuolo e Michael Cera/Kevin McCallister scatenato nella scena più ricca di meme ma anche di divertimento, è quel Karl Glusman platino che dove lo metti fa il suo lavoro con magnetismo.
Nella sua distopia e nel suo creare un universo brutto sporco e cattivo, The Running Man pur adattando un romanzo del 1982 e rifacendosi a un film del 1987, arriva dopo Hunger Games, Maze Runner, il The Long Walk kinghiano di prossima uscita e Black Mirror, ovviamente.
E con tutto il bene che si può volere a Edgar Wright, lui che è famoso per il ritmo scatenato, qui lo spezza fin dall'inizio, con la selezione di Ben condensata a favore delle sue esperienze lavorative pregresse, gli altri due running men così macchiettistici da essere presto dimenticati dalla trama e non avere interesse se non quando eliminati, le tante tappe e i lunghi giorni che scorrono sapendo ci sarà uno scontro di cui mostrarci le prodezze, prima o poi, poi un altro, poi quello finale, che si dilunga e allunga la sensazione di pesantezza che i 133 minuti si portano dietro.
È proprio il ritmo azzoppato, è proprio la tensione che manca a far perdere interesse, in un crescendo che accumula senza portare da nessuna parte, se non a un finale in cui se vale tutto, tutto non vale più niente.
Voto: ☕☕½/5




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