15 novembre 2016

Crisis in Six Scenes

Mondo Serial

Diciamolo, l'entusiasmo iniziale di vedere Woody Allen alle prese con una serie TV è presto scemato.
Il suo piglio, la sua scrittura, si sarebbero potuti allineare a quelli richiesti dalla TV, fosse anche Amazon?
Rivederlo sia dietro che davanti alla macchina da presa, avrebbe avuto il suo influsso positivo, visto che a fargli da spalla ha scelto una giovane attrice come Miley Cyrus?
La risposta, che ci diamo noi ma che molto probabilmente si è dato anche lo stesso Woody è che no, lui non può funzionare in modalità seriale, no, davanti la macchina da presa ha probabilmente fatto il suo tempo.
E lo si capisce non solo dalle esternazioni che non lo vedranno mai più coinvolto in un progetto televisivo, ma dalle stesse parole che mette in bocca al suo alter ego, all'ansiogeno e apprensivo Sydney, chiamato a scrivere una serie televisiva da un gran network americano, ma combattuto con il desiderio di riuscire a scrivere IL grande romanzo, IL suo grande romanzo, alla stregua di Francis Scott Fitzgerald o di J. D. Salinger.



Non stupisce quindi che Crisis in Six Scenes appaia così poco ispirato, con una trama che sa essere lineare e caotica, con i tempi della comicità che qui non funzionano bene come sul grande schermo.
E pensare che visti nel loro insieme, i 6 episodi che la compongono hanno una durata totale di 120 minuti, né più né meno di un film qualunque al cinema oggi.
Ma manca struttura, manca profondità nella storia di una ragazza che si rifugia dagli amici di famiglia, una ragazza ricercata in tutto il Paese in quegli anni '60 di protesta e di atti radicali per dimostrarla questa protesta. Così, Miley Cirus non fa altro che inneggiare alla rivoluzione, esprimendosi a motti politici e in invettive che infastidiscono, mentre il pasticcione Sydney non fa altro che pasticci, l'altro ospite di caso, il perfetto bravo ragazzo, viene tentato dal fascino della diversità, e quella moglie, pasticciona pure lei, dimentica i suoi clienti in analisi, in favore di un club letterario che s'istruisce con gli insegnamenti di Marx e Mao.


L'apice di questo pastiche lo si ha nell'episodio finale, dove tutto converge caoticamente in quella casa perfetta nella periferia di New York, e se non bastano le invettive della Cyrus o la voce fastidiosa di Elaine May, ci pensa il baccano generale a far sperare che il tutto presto finisca.
A salvarsi, come sempre anche nel Woody peggiore, è il reparto tecnico, tra fotografia, costumi e scenografie sooo 60's, che però crollano al confronto con quanto fatto da Mad Men.
A salvarsi, come sempre, i piccoli aforismi, i motti, le battute, con cui Woody ci tiene a bada, ma che crollano al confronto con quanto fatto da Pastorale Americana, in cui i temi dell'anarchia, della rivolta, sono trattati con il giusto rispetto.
A salvarsi, infine, il fatto che con i soldi guadagnati dal contratto Amazon, sia stato prodotto il ben più meritevole Café Society.
Ora, se solo Woody si concedesse del riposo, probabilmente quel romanzo, IL suo romanzo, riuscirebbe a scriverlo.


6 commenti:

  1. Dal poco che ho visto, onestamente, non mi sembrava né peggio né meglio dei suoi soliti. Chiacchieratissimo, solo non altrettanto ben impacchettato.
    Prima o poi lo finisco, anche se non entusiasma. :)

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    1. Diciamo che è peggio dei suoi film peggiori, troppo parlato, troppo poco profondo. Perfino in Irrational Man l'idea di partenza si salvava, qui nemmeno quella.

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  2. Serie non molto riuscita, però a me qualche risata comunque l'ha regalata e mi sono visti tutti gli episodi senza annoiarmi o irritarmi troppo (magari giusto un po' verso la fine).

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    1. Qualche risata sì, ma l'irritazione l'ha sovrastata. Woody, ti aspetto al cinema che è meglio!

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  3. Ho talmente odiato questa serie che non ne ho nemmeno trovato la forza di parlarne - e io sul mio blog parlo di tutto tendenzialmente... -.

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    1. Ne ho parlato solo per sfogarmi e per riempire il buco del martedì seriale, Woody questa volta non c'è proprio.

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