31 agosto 2019

Venezia 76 - Ema

Il mio rapporto con Pablo Larraìn non è mai stato dei migliori.
Ultimamente andava meglio.
Andava?
Perché uso il verbo al passato?
Faccio fatica a spiegarlo.
Forse va ancora bene, sta migliorando.
Il fatto è che Ema, la sua ultima fatica in anni che lo stanno vedendo laboriosissimo, fatico appunto ad inquadrarla.



Esagera, eccede, segue tante piste.
Ha dalla sua una protagonista che ispira antipatia al primo sguardo.
Ha una storia forte raccontata a pezzi di puzzle ma pure non approfondita a dovere.
Ma ha scene sublimi, coreografie che mostrano la forza della danza contemporanea e pure del reggaeton (per buona pace del sempre bellissimo Gael Garcia Bernal, che parte in una filippica da applausi contro il genere).
Ha una fotografia che rende tutto migliore, anche gli abiti chiassosi, il sesso eccessivo.
Ma la storia? -ci si chiede.
La storia è quella di due ballerini che hanno rinunciato al loro figlio adottivo. Problematico, violento. O forse sono loro -artistici e mal assortiti- che non erano i genitori adatti a prendersene cura.
Si insultano, quindi, pur amandosi.
Si scontrano e si lasciano, si tradiscono pur rimanendo gelosi.
E Ema perde il controllo. O forse ce l’ha appieno.
A noi non resta che seguirla, tra una festa, un adescamento, un colloquio di lavoro. Con parti inaspettatamente leggere e comiche, con quelle coreografie e quel fuoco che rendono bella anche una città decadente.
Il dubbio, nei tanti finali presenti (tutti perfetti, che sia su un auto, su autobus o in una casa), resta.
Un piccolo grande film in attesa di tornare ad Hollywood, o un grande film su una donna complessa?
Io continuo a rimuginarci.

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