Andiamo al Cinema
In tempi di guerra ci interessano ancora i film di una guerra passata?
Se a rispondere sono io, dico no.
Soprattutto se la guerra proposta è dal punto di vista americano, che è sempre problematico.
Se si entra in Warfare senza sapere altro se non che si tratta della ricostruzione di una missione vera, basata sui ricordi e suoi dettagli tecnici dei Navy SEAL che vi hanno preso parte, il film funziona come un film di guerra né più né meno: con un lento progredire degli eventi, con l'azione che entra nel vivo, con la situazione che si fa insostenibile e l'emotività che prende quando morti e feriti sono da soccorrere e una via di fuga sicura non c'è.
Classico.
Per quanto reale.
La ricostruzione è così fedele che è facile venir schiacciati dai dialoghi fatti di soli tecnicismi che non fanno che perdere attenzione di chi -sempre io- di guerra e di storie di guerra non è così interessata.
Le cose cambiano quando uscita dalla visione s'inizia a informarsi un po', che per evitare spoiler e anticipazioni, per cercare di vedere il film scevra da pregiudizi, funziono così.
Ed è così che capisco che la ricostruzione della missione che nel 2006 ha visto operativi la squadra Alpha One è fedelissima, corroborata in ogni suo fatto da almeno due o più commilitoni, che la missione e il film condividono lo stesso tempo di durata, quei 90 minuti circa che finiscono per cambiare la vita per sempre a questi soldati di giovanissima età. E alla famiglia di cui occupano l'appartamento, immagino.
Anche per questo non c'è colonna sonora, solo un momento inziale i cui il video di Call on Me ci mostra quanto imberbi e umani e vivi e uniti possono essere dei commilitoni, per ancorarci a loro, per farci provare l'empatia richiesta e non scontata quando si entra nel vivo dell'azione.
Lì, in una polverosa strada di Ramadi, respiriamo anche noi a fatica per la polvere e la tensione, sentiamo il dolore di ferite e di amputazioni, sentiamo la testa abbandonarci quando soluzioni per andarsene non se ne trovano, ma allo stesso rimaniamo affranti, come quella famiglia che ha visto la sua casa diventare uno scenario di guerra nel giro di poche ore.
Ma sono loro i protagonisti: un gruppo di soldati unito che Alex Garland e Ray Mendoza hanno voluto mettere insieme intervistando le giovani promesse del cinema e delle serie TV creando un gruppo in cui ricalcare le dinamiche di leadership e di carattere dei corrispettivi reali.
D'Pharaoh Woon-A-Tai, Will Poulter, Cosmo Jarvis, Kit Connor, Finn Bennett, Joseph Quinn e Charles Melton hanno fatto così gruppo da tatuarsi insieme, per ricordare l'esperienza di un set intenso quanto la preparazione fisica e mentale richiesta che è durato appena 5 settimane.
Garland ci è arrivato direttamente dalla premiere di Civil War, rimasto ancorato agli scenari di guerra tanto da voler mostrare uno spaccato reale assieme al referente militare del film, Ray Mendoza.
Ci riescono, nel bene e nel male per chi certi film -tecnicismi a parte, ché le riprese sono ad alto tasso di entusiasmo per come si muovono gli operatori- fatica a mandarli giù per quel senso di patriottismo che sembrano sempre avere, anche quando cercano di essere universali, di rappresentare un missione tra tante, di mettere in scena giovani e giovanissimi alle prese con il sangue e la morte mentre i cattivi restano nascosti sui tetti e senza un volto o un nome.
Sul finale visitiamo quel set, e lo facciamo assieme al vero Elliott Miller, a cui il film è dedicato, che nella missione ha perso le gambe e l'uso della parola, aiutato finalmente a ricordare un'esperienza che ha rimosso.
Ma se serve il set, il dietro le quinte, i tecnicismi e i racconti da quel set per far apprezzare un film significa che quel film da solo non ce la farebbe.
Soprattutto se di guerra, vera o meno, passata o presente, ci si sta assuefando.
Voto: ☕☕½/5
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