25 ottobre 2023

Killers of the Flower Moon

Andiamo al Cinema

Quando esci da un film di Martin Scorsese puoi aver faticato, puoi esserti annoiato o perso in alcuni punti, ma sai di aver visto un grande regista al lavoro.
Uno che a 80 anni non ha voglia di smettere, e che è già al lavoro per un nuovo copione da affidare al fantoccio Leonardo DiCaprio grazie alla libertà che le piattaforme offrono rispetto agli studios.
Divido Scorsese in due filoni: i film ritmati che non posso che adorare, e i film più riflessivi e storici che affaticano di più. SilenceThe Irishman e anche Killers of the Flower Moon fanno parte di quest'ultimo filone,
Film in cui si sente che la storia è cara a Martin, perché incrocia la Storia.
Ma a differenza della fede di Silence, della politica interna americana di The Irishman, qui è più facile partecipare, essere punti sul vivo e scossi di fronte a omicidi e avidità.


Dimenticata dalle pagine di storia che non raccontano certo i successi dei non americani o i delitti degli americani, quanto successo alla tribù degli Osage in Oklahoma tra il 1918 e il 1931 era finito in qualche saggio, in qualche inchiesta governativa, salendo agli onori delle cronache solo nel 2011 per un risarcimento sostanzioso dopo la causa intentata contro il Dipartimento dell'Interno.
Gli Osage, ovvero la popolazione più ricca al mondo a livello pro-capite. Puniti dagli americani e confinati in una terra collinosa e non coltivabile, premiati da Dio, che in quella terra gli fa trovare il petrolio.
È un mondo alla rovescia, quello di Osage County, dove i bianchi fanno da servitù ai nativi americani, dove i matrimoni misti sono incentivati per dividere la ricchezza, dove le donne in quanto proprietarie terriere hanno il potere.
Almeno su carta, però, perché con il governo che cerca di arginare la ricchezza di questi nativi considerati incapaci di gestirla e quindi affiancati da tutori bianchi, arrivano anche quei bianchi che cercano di sfruttarli, tra matrimoni di facciata e omicidi su commissione.
Sono decine i morti ufficiali anche se solo su pochi si è indagato, con la polizia, i medici, gli avvocati e pure i becchini a chiudere gli occhi archiviando questi morti come accidentali.


È Mollie Burkhart a non starci.
Lei che perde la madre, le sorelle e il cugino, lei che sposa un bianco che sembra innamorato di lei, ma che è nel giro delle rapine, delle scommesse e anche degli omicidi ai danni dei membri della sua comunità e della sua famiglia.
Scorsese questo racconta, una lunga pagina di storia in cui non si mette ai piedi dello spettatore e gli chiede di seguire questo viaggio, questa discesa negli inferi di una donna che credeva di essere forte e di conoscere i coyote quando li vedeva, e che finisce invece in una trappola.
Ma è la storia anche di un uomo diviso, sottomesso a uno zio che si fa chiamare Re, sottomesso all'amore ma soprattutto all'avidità, perché lui i soldi li ama anche più delle donne.
Ed è la storia di americani emarginati, non riconosciuti come tali, che Scorsese affida e gira proprio nelle loro terre.
Ci mostra così una comunità dove i sospetti aumentano, dove le indagini si fermano e la violenza è concessa. Una comunità alla rovescia in cui restano comunque i bianchi nelle posizioni di potere a poter comandare, anche se tramando nell'ombra omicidi e colpi di potere che riescono ad arrivare fino a Washington ma che si fermano grazie a J. Edgar Hoover.


Assistiamo così a uno contro fra giganti. 
Fra un Robert De Niro che ogni tanto si ricorda quali sono i film giusti a cui partecipare e un Leonardo DiCaprio che imbruttito, gonfio e beone, colleziona una nuova nomination agli Oscar grazie a sbotti di rabbia e flirt.
In mezzo, la sorpresa Lily Gladstone, che tiene testa a entrambi, che risoluta e poi in fin di vita, ha uno sguardo e un'espressività magnetica.
Meglio affrontarlo, però, l'elefante nella stanza: la durata elefantiaca del film.
206 minuti che, spiace dirlo, si sentono.
Non subito, non all'inizio, in una prima parte in cui i morti si sommano, in cui personaggi si presentano nascondendo le loro male intenzioni. Ma come in Oppenheimer, è la coda giuridica finale che cambia il ritmo al film, a fare da colpo di grazia.
Certo, va da sé che dipende dalla serata, dalla sala, dal momento in cui il film si vede. E un cinema che viene incontro alle esigenze del pubblico mettendoci un intervallo di mezzo, finisce però per staccare l'attenzione di chi non ne aveva bisogno.


I tempi sono lenti e si prende i suoi tempi, Martin, per raccontare una storia lunga in cui gli anni che passano sono dettati dai figli che nascono e crescono, senza troppe didascalie.
Diventa didascalico solo sul finale, in cui al posto dei riassunti su quanto accaduto, entra in scena pure lui, durante la registrazione di un radiodramma, anticamera dei podcast.
Ci mette la faccia, Martin, e ci mette soprattutto la mano.
Perché puoi pure lamentarti di quel ritmo soporifero, dei tempi dilatati e delle pause che si prende DiCaprio. Puoi pure pensare che l'entrata in campo dell'appena nata FBI poteva portare a un cambio di passo più energico, ma non puoi non riconoscere che ogni inquadratura, ogni scena, è costruita come Dio comanda. 
O meglio, come Martin comanda. 
I movimenti di macchina, la posizione della macchina e i personaggi, li vedi e li senti in tutta la loro importanza, a partire dall'iniziale piano sequenza.


Uscito al cinema pur se prodotto da Apple TV+ (ormai piattaforma di sola qualità), non è da pensare come futura miniserie a episodi come successo per The Irishman su Netflix. 
Killers of the Flower Moon è un film pensato per il cinema e fatto per il cinema, dove la regia di Scorsese trova il suo posto, dove una storia poco conosciuta ma così importante nel mostrare il lato nero di un'umanità che non si ferma davanti a nulla per avidità, doveva arrivare.
Non è un film facile, e non è un film immediato di cui dirsi innamorati.
Ma dove sta scritto che devono essere così, i film importanti?
Sono quelli che fanno conoscere volti e storie, sono quelli che parlano per il loro lato tecnico, per il peso che fin dalle prime scene, hanno.
So no quelli che proprio da quelle prime scene, riconosci.
Voto: ☕☕½/5

6 commenti:

  1. Western, noir, film di Gangster, procedurale e lezione di cinema e storia, ci credo che dura 206 minuti, per trattare tutto questo bene come fa Scorsese ci va tempo, e sono convinto che a lasciarlo sedimentare un po', potrebbe migliorare ulteriormente, già così però, niente male, senza nemmeno aver bisogno di essere per forza uno dei migliori del regista di New York. Cheers!

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    1. Fare paragoni è sempre brutto, ma ho capito di preferire il filone ritmato di Scorsese, insomma, quei bravi lupi di Wall Street resta il duo vincente.
      Sedimentato e approfondito con gli articoli giusti che spiegano le indagini e i fatti, cresce, nonostante la fatica.

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  2. Già mi è pesato mortalmente Oppenheimer. Questa volta non ci casco, lo divido in parti, lo vedo a casa. Purtroppo non mi interessa neanche la storia.

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    1. Sì, se l'attrattiva è poca, la fatica si farà sicuramente sentire.
      Non aiutano orari poco umani delle sale, ovviamente.

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  3. Mi interessa la storia e la regia, ma la durata... mi sa che per stavolta passo. Le nuove sedie reclinabili sono una trappola🤣

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    1. Oh, lo so bene! Bisogna scegliere la giornata e l'orario migliore, il rischio crollo è dietro l'angolo, ma per Scorsese ci si allena!

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