Era il 2020 e Joanna Hogg faceva capolino su molte classifiche di fine anno di critici e riviste affermate.
Il film era The Souvenir, un ricordo della sua gioventù, di un amore tossico in ogni senso possibile, della sua nostalgia unita ai suoi sensi di colpa per aver vissuto e amato quell'amore.
Una seconda parte era stata annunciata, e una seconda parte era stata realizzata ma qui in Italia se n'erano perse le tracce.
Nel mezzo, una giuria di cui far parte a Venezia e un film altrettanto personale da presentare a Venezia, che però poco mi aveva convinto.
Come The Souvenir, parte I, l'occhio di Hogg è la parte migliore di quel che realizza.
Un occhio educato alla bellezza inglese, ai suoi artisti, ai suoi quadri che prendono vita, tra paesaggi bucolici, vecchie tenute, vecchi hotel.
Ora, la seconda parte di quel ricordo l'ho trovata.
E l'ho apprezzata molto più della prima, di cui ricordo una certa noia, un certo disappunto, dovuto a quell'amore sbagliato, a quel racconto molto personale che trovava un senso leggendo interviste, leggendo indicazioni sul dietro le quinte.
Honor Swinton Byrne, figlia di Tilda Swinton, amica d'infanzia di Hogg e sua prima attrice, era stata chiamata a recitare senza copione, basandosi sulle lettere, i diari, i racconti di Hogg che mette in scena la sua vita, il suo amore.
Ritroviamo Honor, così come ritroviamo sua madre e i suoi cani, ancora alle prese con quell'amore interrotto a tormentarla, a farla sentire in colpa, a spingerla a realizzare un cortometraggio per la scuola di cinema che sta frequentando che si basa proprio su Anthony, sulla sua doppia vita, sui suoi segreti.
Ci sono quindi ricerche che passano per genitori e per spacciatori, ci sono cadute sul set in cui sentirsi fuori luogo e in famiglia in cui sentirsi giudicati, c'è una rinascita, che arriva lenta, che arriva dopo aver scavato nel baratro di sensi di colpa e dell'idea di sfruttarlo quest'amore.
Ma c'è soprattutto la bellezza, ancora una volta, che Hogg sa inquadrare in continuazione tra campagne inglesi e set in cui l'occhio da fotografa non l'abbandona.
Il racconto resta frammentario, situazionale, ma in questa ricerca (di un'espiazione, di una via d'uscita) c'è più unitarietà rispetto alla prima parte in tempo reale, viaggiando fra musica e ricordi, ricostruzioni e interrogativi.
Ci sono i giudizi degli altri, espressi e ricercati, c'è l'aprire gli occhi, finalmente.
C'è pure più interesse non avendo un Thom Burke da odiare, ma un Charlie Heaton da cui rimanere soggiogati e Joe Alwin e Harris Dickinson più defilati del previsto, ma comunque importanti.
C'è una chiusura soprattutto, splendida nel suo essere meta-cinematografica, a rendere questa seconda parte la conclusione perfetta di un film che è una seduta psicologica.
Ci sarebbe da ridire solo su quel cortometraggio molto artistoide, fin troppo studentesco nelle sue continue metafore, ma non avendo visto l'originale Caprice questo souvenir dentro The Souvenir lo si accetta con i limiti di una regista alle prime armi, che deve ancora trovare la sua identità.
Ora, sessantenne e finalmente indipendente, Joanna Hogg ha trovato la sua voce e il suo occhio.
Molto personale, molto chiuso su se stessa e la sua storia, ma in questa seconda parte in cui si apre al pubblico, ai giudizi altrui, finalmente più apprezzabile.
Voto: ☕☕☕/5
Sarà anche più apprezzabile, ma dopo il primo film non credo di poter reggere una seconda parte XD
RispondiEliminaEssendoci di mezzo più cinema e più dietro le quinte della realizzazione del primo Souvenir, qui guadagna punti e fascino. Anche se mi convince sempre meno del previsto, l'occhio di Hogg mi strega.
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