Mondo Serial
Il rischio era grande: una stagione senza Pablo.
Aveva senso proseguire una serie nata sotto la buona stella di Escobar?
Sì, se la serie era pensata per andare avanti senza di lui, per esplorare nuovi narcotrafficanti, nuovi cartelli.
Un po' meno se questi cartelli, questi altri boss, lo stesso carisma di Pablo non ce l'hanno.
Il rischio, sembrava centrato in pieno all'inizio di questa terza stagione di Narcos, con un ritmo quanto mai lento e degli antagonisti che non spiccavano né per personalità né per cattiveria.
I fratelli Rodriguez, così diversi nella gestione del loro impero, più i marginali -fin troppo marginali- Pacho e Chepe, sembravano infatti destinati a far collassare uno dei prodotti di punta di Netflix, complice anche una trama che prevedeva la fine dell'Impero di Cali, la resa nei confronti di un governo che garantiva però la piena libertà.
Cosa aspettarsi, allora, da tutto questo? Da una lotta interna presto fermata a suon dei soliti proiettili e della solita violenza esasperata?
A a metterci una pezza ci pensa l'agente Peña, avvalendosi della complicità di due nuove reclute pronte a darsi da fare (e ritrovo così il Michael Stahl-David che avevo adocchiato in tempi non sospetti sia in Cloverfield che nella mai dimenticata Black Donnellys) e con l'aiuto fondamentale di una talpa, un collaboratore come il mite Jorge Salcedo, che con i Rodriguez non vorrebbe più avere a che fare.
La testa calda di Peña che non ci sta a uno smantellamento tranquillo ma vuole giustizia e vuole la prigione per questi nuovi boss, scatenerà così una vera e propria guerra, tra cartelli, ovviamente, e interna, con la vita di Salcedo sempre in sospeso, con piani che falliscono e imboscate che segnano a vuoto.
È l'azione a fare di Narcos, Narcos: la tensione, la suspense, quei montaggi incrociati che fanno trepidare per un boss nascosto chissà dove nella sua casa o la bella di turno da salvare in piena giungla.
Difetti, purtroppo, ce ne sono.
Ci sono forse troppi personaggi, troppi boss e troppi affiliati coinvolti in questa guerra, che portano a storylines di cui magari importa poco (Pallomari e la moglie fedifraga) o che vengono lasciate così, in sospeso (la coppia Jurado con i beniamini Miguel Angel Silvestre e la fragile Kerry Bishé), o che sul punto di nascere, subito muoiono (la spavalderia di Maria e il nuovo boss David).
Si punta sull'azione, come detto, e si punta sulla politica, sui doppi giochi e sulla corruzione imperante in un Paese in cui è tanto facile morire come essere comprati, in cui la vita sembra davvero non valere niente.
La violenza, il sangue, eccedono, e il tormentato agente Peña acquista spessore, sempre più, e si fa narratore e antieroe pieno di fascino, grazie ovviamente al physique du rôle che si porta appresso Pedro Pascal, mescolando ancora sapientemente realtà e drammatizzazioni, ricostruzioni precise al dettaglio, filmati d'epoca.
In attesa di spostare l'azione da una Colombia ormai impossibile da gestire a un Messico che fa paura anche ai giorni nostri, non solo negli anni '90, la prova di un Narcos senza Pablo si può dire inaspettatamente superata.
Non so se Narcos può sopravvivere senza Pablo Escobar, ma io per il momento non sono sopravvissuto e mi sono fermato al primo episodio...
RispondiEliminaVedrò di proseguire, anche se per me pesa alla grande pure un'altra assenza, quella di Boyd Holbrook e del suo punto di vista ammeregano.
I primi episodi non sono affatto facili, pure io mi sono addormentata e ho rischiato di mollare, ma poi si riprende e prende davvero. Non ci sarà la voce ipnotica di Holbrook ma c'è il fascino del tormentato Pena -con la n con l'onda-, e alla fine il cambio gioca a suo favore.
EliminaDevo ancora iniziarla, ma considerato il genere, direi che qui al Saloon sarà molto apprezzata nonostante l'assenza di Pablito.
RispondiElimina