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I pregiudizi sono sempre una brutta bestia.
Nei confronti di Ron Howard, ne ho da sempre.
Un regista che ritengo classico, un maestrante che si presta a raccontare storie classiche, in modo classico.
Storie perlopiù dedicate a uomini comuni che si trasformano loro malgrado in eroi, storie americane, in cui attori di grande calibro, si calano senza grossi problemi ma anche senza alcun guizzo, al servizio di una sceneggiatura che il più delle volte punta a qualche premio, senza però essere originale, innovativo, con un'anima.
Problemi miei, ovviamente, ma anche delle storie che Ron Howard si è messo a raccontare negli ultimi anni, l'ultima delle quali -Elegia Americana- era così irritante da non aver convinto nemmeno l'Academy, nonostante fosse stata pensata e tagliata su misura per partecipare agli Oscar.
Ora Ron Howard è tornato, e racconta un'alta storia vera, di altri uomini comuni che si trasformano in eroi.
La vicenda è quella che ha tenuto il mondo con il fiato sospeso per settimane nell'estate del 2018: dodici ragazzini componenti di una squadra di calcio, intrappolati con il loro giovane allenatore in una grotta sommersa dai monsoni in Thailandia.
Trovarli, sapere se sono vivi, portarli fuori, diventa un'impresa che coinvolge il mondo intero.
Materiale perfetto per telegiornali e programmi di informazione, collegati in diretta in attesa di sviluppi.
Materiale ottimo, poi, per saggi e libri-verità, con i protagonisti coinvolti a raccontare il loro punto di vista.
Materiale perfetto per un film?
In parte.
Per un film rischioso, di certo, che oltre al facile buonismo, deve riuscire ad evitare anche la retorica dell'aiuto che arriva dall'Occidente, oltre a riuscire a rendere credibili operazioni di salvataggio e di ricerca avvenute nel buio di grotte sommerse in cui rimanere in apnea per ore.
La sorpresa è che Ron Howard riesce a superare anche i rischi di una storia di cui già si conosce il lieto fine, e riesce a tenere con il fiato sospeso per tutti i 149 minuti di durata del suo film. Una lunghezza portentosa che spaventava tanto quanto i pregiudizi di cui sopra.
Sarà che della vicenda avendola seguita solo via radio, conoscevo pochi dettagli, non avevo immagini con cui confrontarmi e gran poca conoscenza sulle immersioni in grotte.
L'iniziale sparizione di questa squadra di calcio nei recessi della Terra, la pioggia incessante che li blocca e che rende impossibile capire dove e come stiano, fa da introduzione alla missione di salvataggio ad opera di autorità del luogo, esperti inglesi e americani, la parte centrale del film.
Che mostra la diffidenza inevitabile fra autorità e poteri da spartire, orgoglio e onore, rabbia di famiglie tenute all'oscuro e una popolazione che si mobilita mentre i giornalisti prendono d'assalto Tham Luang.
Colin Farrell, Joel Edgerton e Viggo Mortensen hanno preferito non usare controfigure, rischiando e subendo veri e propri attacchi di panico durante le riprese girate in studi ampi in cui le grotte sono state ricostruite.
Anche per questo sono credibili, i loro Rick Stanton, Richard Harris e John Volanthen, dai caratteri opposti, non troppo enfatizzati, sono frutto di un lavoro di sottrazione perché questo non è un film in cui contano tanto gli attori, quanto l'azione.
Un'azione diversa da quella fracassona fatta di inseguimenti e fughe, un'azione che è di salvataggio, che prevede l'uso della calma e del sangue freddo.
Howard riesce a farci provare la paura, il buio, il freddo e le correnti dello stare ore sott'acqua, con un'infografica che rende l'impresa ancora più spaventosa ai miei occhi. E probabilmente a quelli di tutti.
Dentro l'acqua gelida e torbida (anche se non quanto lo era in realtà, unica concessione che Howard sembra essersi preso a detta degli esperti, per far vedere qualcosa allo spettatore altrimenti al buio completo) le tredici vite da salvare appassionano come un miracolo di un'umanità unità in sforzi, aiuti e preghiere che ci ricorda in questi tempi bui che esseri umani possiamo essere.
Lo sforzo di un film dall'impianto tecnico e dalle riprese impegnative e dispendiose, avrebbe meritato il grande schermo, dove la sensazione di claustrofobia, la tensione condivisa in sala, avrebbe reso l'esperienza della visione ancora più avvincente.
Ci si deve accontentare del divano di casa, per una storia che si credeva di conoscere, ma che il cinema riesce a rendere nuova ed emozionante.
Le grandi storie, al servizio di grandi maestranti, hanno questa magia.
Alla faccia dei pregiudizi.
Voto: ☕☕☕/5
Anche in casa, visto nel buio totale, ti assicuro ha reso benissimo
RispondiEliminaGià mi ispirava poco, ora che mi hai fatto scoprire che alla regia c'è Ron Howard ancora meno...
RispondiEliminaIo mi sa che rimango con i miei pregiudizi. XD