4 settembre 2024

Venezia 81 - I Film Italiani

Campo di Battaglia

I film di guerra non sono mai facili.
Rischiano di scadere nella retorica, patriottica o umanitaria, ora più che mai.
Cade in questo rischio Campo di battaglia, che il fronte non ce lo mostra, ma resta indietro, nell'ospedale di campo dove feriti e moribondi arrivano, perlopiù siciliani, perlopiù con ferite autoinferte per ritornare a casa. Sono giovanissimi che hanno visto troppo e che si comportano da vigliacchi, per il medico fedele Giulio Farradi, sono giovani che si possono ancora salvare, pur amputando, pur infettando, pur di salvarli da una guerra ormai inutile, per Stefano Zorzi. In mezzo a loro, l'infermiera Anna, donna dura in un mondo di uomini che non sa da che parte stare. 


È il suo personaggio con i cambi di visione a non aiutare una sceneggiatura che lascia buchi, che approfondisce troppo per dire troppo poco. E lo fa con quel fare impostato e teatrale tipico di un certo cinema italiano se non della fiction che risulta così impostato e teatrale da dare alle frase patriottiche quel fare finto e fuori dal mondo che sempre si contesta al cinema italiano.
Funziona almeno la ricostruzione, la cura di abiti e accessori medici, e funziona in parte Alessandro Borghi, chiamato all'ennesima trasformazione vocale e fisica dove però si perde in piccole caratteristiche, come se bastasse un sorriso bonario e inquietante per trasformarsi in un medico umano e in conflitto come Zorzi.
I morti non si contano, al fronte come nei paesi flagellati dalla febbre spagnola, e nel suo intento piuttosto evidente di fare un paragone con i tempi del COVID pur parlando di guerra e della sua assurdità, la retorica è servita nel suo modo più plateale. Ci si dividerà fra stroncature e elogi, come da popolo italiano.

Vermiglio

Ancora la guerra, ancora il nord Italia isolato nei suoi paesini e nelle sue comunità, ancora lo straniero che viene dalla Sicilia a scombinare le carte.
Anche nel film di Maura Delpero la guerra è vicina ma non si vede, si vede chi ci è tornato e si nasconde, chi aspetta la sua fine.


Lo si fa seguendo una famiglia numerosa, un padre despota acculturato, maestro del paese e le sue figlie che crescono in modo diverso. Si innamorano, si puniscono, si interessano alla cultura. Sono i più piccoli, con la loro naturale curiosità e ingenuità a regalare i momenti più dolci e veri al film, confrontandosi con le sorelle e i fratelli maggiori. Sono le stagioni ad alternarsi come nelle composizioni di Vivaldi a dare il tono alla sceneggiatura che mostra un anno fra quei monti dove tutto cambia.
Femminile e femminista senza per questo farsi manifesto evidente, Vermiglio nella sua semplicità e nella sua allegoria bucolica cresce piano piano, rendendoci la famiglia Graziadei una famiglia amica da cui ci si stacca a fatica. Donne che devono trovare il loro posto tra padri ingombranti e uomini approfittatori.
Una sorpresa, finalmente, nel cinema italiano.

Se posso permettermi

Alter ego di Marco Bellocchio, il professor Flavio non ha più modo di salvare il suo appartamento, ingombro di libri, conteso fra domestiche, preti e affaristi.


Mentre lui cerca una soluzione al mantenersi senza lavorare, da lì passa il meglio del cinema italiano a conferma di quanti voglio lavorare con Bellocchio anche solo per un cortometraggio in famiglia, nella sua casa, divertente il giusto.

Allegorie Citadine 

Il cinema di Alice Rohrwacher incontra l'arte di JR e insieme rileggono il mito della caverna di Platone aggirandosi per Parigi con lo sguardo ad altezza di bambino.
Artistico e caloroso, una conferma in piccolo.



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